Centro di Neuroscienze Anemos
Direttore sanitario: Dott. Marco Ruini
Area di Psichiatria e Psicologia Clinica
Dott. Giuseppe Cupello, Dott. Raffaele Bertolini, Psichiatri
Dr.ssa Sangiorgi Annamaria, Dr. Gasparini Federico Dr.ssa Barletta Rodolfi Caterina, Dr.ssa Beltrami Daniela Dr.ssa Maldini Federica, Dr.ssa Muscatello Laura
Dr.ssa Faietti Lisa, Dr.ssa Landini Morena, Psicologi
Dr.ssa Cocca Sandra, Logopedista
Area di Oculistica
Dott. Valeriano Gilioli, Oculista
Dott. Vicenzo Vittici, Oculista
Servizio di Neurochirurgia
Dr. Marco Ruini: Neurochirurgo
Dr. Andrea Veroni: Neurochirurgo
Dr. Andrea Seghedoni: Neurochirurgo Dr. Nicola Nicassio: Neurochirurgo Dr. Raffaele Scrofani: Neurochirurgo
Collaborazioni
Dr. Ignazio Borghesi, Neurochirurgo
Prof. Vitaliano Nizzoli, Neurochirurgo
Prof. Lorenzo Genitori, Neurochirurgia Pediatrica
Dr. Aldo Sinigallia, ortopedico, patologia degenerativa del rachide e scoliosi
Dr. Bruno Zanotti, Neurochirurgo
Servizio di Terapia Antalgica
Dr. Ezio Gulli, Anestesista, Terapia infiltrativa
Servizio di Rieducazione Funzionale
Dr. Aurelio Giavatto, Manipolazioni viscerali, dermatologo
Dr. Nicolas Negrete, Dr.ssa Ft. Bisay Soledad Maria, Fisioterapista
Dr. Giorgio Reggiani, Fisiatra
Servizio di Neurologia e Neuro Fisiologia
Dr. Mario Baratti, Neurologo e neurofisiologo
Dr. Devetak Massimiliano, Neurologo, patologia vascolare
Dr. Enrico Ghidoni, Neurologo, neuropsicologia clinica
Area di Ortopedia
Dr. Antonio Laganà, Ortopedico
Dr. Ivo Tartaglia, Ortopedico
Altre Aree
Dr.ssa Ghinoi Alessandra, Reumatologa
Dr. Piazza Rosario, Urologo
Dr.ssa Fontanesi Marta, Scienze dell’alimentazione
Un Numero Monografico
Il secondo numero del 2016 di “Neuroscienze Anemos” esce in anticipo. Come i lettori potranno vedere, si tratta sostanzialmente di un numero monografico, se si esclude la prima parte del periodico tradizionalmente dedicata alle notizie dal mondo della scienza e alle rubriche.
I contributi di questo numero ripropongono i testi su cui si basano gli interventi che si terranno durante il convegno “Neuroestetica. L’invenzione della bellezza”, in data 11 marzo
Il convegno è frutto della collaborazione della Libera Università di Neuroscienze Anemos, dell’Università di Modena e Reggio Emilia e della SNO (Scienze Neurologiche Ospedaliere). La sede dell’evento è il Centro Internazionale Loris Malaguzzi di Reggio Emilia, che ha gentilmente concesso gli spazi e fornito utile supporto logistico per la comunicazione (il programma completo del convegno è disponibile nella terza di copertina di questa pubblicazione).
La sequenza degli articoli, però, non segue strettamente l’ordine di intervento degli autori nel corso del convegno. Questo perché il periodico è strutturato in modo da fornire sempre una prima lettura di tipo neuroscientifico del tema che si tratta, per proseguire poi con progressivi allontanamenti tematici e con punti di vista di diverse discipline non strettamente scientifiche.
Convegno e rivista, però, sono accomunati, oltre che da testi e autori, dalla stessa duplice prospettiva: il tema della bellezza, secolare problema filosofico, viene visto attraverso la scienza e attraverso la letteratura, la musica e le arti figurative.
La prima parte del convegno e degli articoli ad esso collegati, sono opera di relatori provenienti essenzialmente dalla professione medica (in particolare neurologia e neurochirurgia), mentre la seconda parte è curata da relatori provenienti dal mondo accademico delle scienze umanistiche e della comunicazione scientifica. Moderatori rispettivamente della prima e della seconda parte sono Adriano Amati (scrittore e giornalista) e Bruno Zanotti (Neurologo e Neurochirurgo). I relatori sono anche autori di due articoli presenti nella rivista.
Gli Editori La Clessidra Editrice Libera Università
di Neuroscienze Anemos
Numero realizzato con la collaborazione di
I Neuroni alla base del Sospiro
A controllare il sospiro è un circuito cerebrale composto da appena 230 neuroni
Un meccanismo fonda- mentale per mantenere in piena efficienza i nostri polmoni è il sospiro, un atto che eseguiamo non solo in occasio- ne di determinati stati d’animo, ma che compiamo ogni cinque minuti e spesso senza accorger- cene. Ad indagare i meccanismi alla base del sospiro è stato un gruppo di ricercatori della Stanford University School of Medicine dell’Università della California a Los Angeles, che ha pubblicato la sua scoperta sulla rivista “Nature”.
L’equipe ha così scoperto che a controllare il sospiro è un circuito cerebrale estremamente specializzato, composto da solo 230 neuroni. Il sospiro è essenziale per una buona funzionalità polmonare. Obiettivo dei sospiri è gonfiare il mezzo miliardo di alveoli di cui sono formati i polmoni e in cui avviene lo scambio fra ossigeno e anidride carbonica.
Gli alveoli sono minuscoli e molto delicati, tanto che spesso collassano e riducono la capacità del polmone di scambiare questi due gas. L’unico modo per farli gonfiare di nuovo è il sospiro, un atto respiratorio forzato che porta nel polmone un volume d’aria doppio rispetto al normale.
I ricercatori hanno condotto una serie di esperimenti sui topi, che sospirano più spesso degli uomini (alcune decine di volte al minuto). Hanno così individuato non solo il circuito che controlla il sospiro, collocato nella parte
ventolaterale del bulbo dell’encefalo, ma anche i neuromediatori, cioè quelle sostanze che questi neuroni usano per comunicare fra loro: il peptide di rilascio della gastrina (GRP) e la neuromedina B (NMB).
Il Programma che riconosce cosa vediamo
L’algoritmo analizza i segnali del cervello e riconosce cosa stiamo guardando
Un programma, realizzato dai ricercatori di Stanford e della University of Washington, rappresenta un nuovo passo avanti nella riabilitazione di pazienti che, a causa di ictus o tumori al cervello, presentano problemi alla vista. Il programma, presentato nelle pagine della rivista “Plos One”, permette di decodificare i segnali elettrici del cervello riuscendo così a determinare cosa sta osservando in quel momento una persona. Lo studio è stato compiuto su sette volontari ai quali, tramite elettrodi, è stata monitorata l’attività delle regioni lobotemporale e occipitale del cervello quando venivano loro mostrate immagini di volti umani e di case. Durante il test un programma analizzava due tipi di segnali cerebrali: gli Event-Related Potentials (erp), segnali prodotti quando i neuroni di ciascuna area del cervello si attivano in sincronia, e i broad-band signals, che rappresentano invece differenti aree cerebrali che si attivano in modo asincrono.
Utilizzando i dati raccolti, i ricercatori hanno fatto allenare il loro algoritmo: hanno analizzato le prime 200 risposte dei partecipanti e poi hanno chiesto al programma di prevedere le successive 100. L’esperimento ha avuto successo: l’algoritmo
infatti ha riconosciuto quando gli esseri umani stavano osservando un’immagine, di che tipo fosse, con appena mezzo secondo di ritardo.
I ricercatori sperano che in futuro, grazie a questi studi, sia possibile allenare i circuiti cerebrali di pazienti vittime di danni neurologici. In molti di questi casi, infatti, il cervello presenta regioni che non riescono a dialogare in modo corretto tra loro. Se si riuscisse a interpretare i segnali cerebrali e comprendere l’area a cui sono diretti, sarebbe possibile stimolarla artificialmente, recuperando con il tempo la funzionalità cerebrale persa.
Scrivere senza errori
Individuate le aree cerebrali che permettono di scrivere senza errori di grammatica
Un’equipe di ricercatori del CiMeC (Centro interdipardipartimentale Mente/Cervello) dell’Università di Trento e della Johns Hopkins University di Baltimora ha identificato le aree cerebrali che controllano la capacità di scrivere in modo ortograficamente corretto. I risultati della loro ricerca sono stati pubblicati in un articolo su “Brain”.
Anche se siamo abituati a farlo tutti i giorni, scrivere in realtà è un compito molto complesso che coinvolge diverse aree cerebrali: comporta il recupero dalla memoria a lungo termine delle informazioni relative alle lettere che compongono la parole e il loro ordine, il trasferimento di queste informazioni alla memoria di lavoro e l’attivazione delle aree della corteccia che presiedono il movimento della mano.
I ricercatori hanno mappato in tre dimensioni (voxel-based mapping) il cervello di 27 soggetti che, a causa di un ictus o della rimozione di un tumore cerebrale, sono stati colpiti da differenti forme di disgrafia. Confrontando le diverse scansioni, si è scoperto che il vocabolario delle parole scritte si trova nel lobo frontale e temporale, mentre la memoria di lavoro in un’area specifica del lobo parietale.
La scoperta potrà essere utile per sviluppare programmi di riabilitazione destinati a chi è colpito da disgrafia a causa di un ictus e per chiarire i rapporti fra i processi visivi e spaziali alla base della lingua scritta e parlata.
L’Influenza delle Stagioni sul Cervello
Non solo l’umore, ma anche le nostre funzioni cognitive sono influenzate dall’andamento stagionale
Uno studio pubblicato sulla rivista “Pnas” ha messo per la prima volta in relazione capacità cognitive e stagionalità. Finora, infatti, si sapeva che le stagioni possono influenzare in modo significativo il nostro umore (ad esempio, in inverno si è più depressi), ma ora la ricerca ha mostrato come le stagioni possano influenzare in maniera significativa anche il funzionamento del nostro cervello.
Lo studio è stato compiuto da un gruppo di ricercatori dell’Università di Liegi che ha misurato le funzioni cognitive di 28 volontari, che partecipavano a un esperimento più generale sulla deprivazione di sonno. Ciascun volontario ha trascorso quattro giorni e mezzo in un laboratorio isolato dal mondo esterno con riscaldamento e luce artificiali, senza conoscere le condizioni atmosferiche esterne e la temperatura. I volontari sono stati poi sottoposti a due test allo scopo di misurare la capacità di attenzione e la capacità di svolgere compiti intellettuali che coinvolgevano la memoria di lavoro. Il tutto mentre il loro cervello veniva esaminato tramite una risonanza magnetica funzionale.
I ricercatori hanno così notato che mentre le prestazioni in entrambi i test erano costanti per ciascun individuo nel corso dell’anno, le risorse cerebrali impiegate per portarli a termine variavano nel corso dei mesi: l’attività cerebrale collegata all’esecuzione dei test di attenzione è risultata massima in giugno, vicino al solstizio d’estate, e minima a dicembre, intorno al solstizio d’inverno. Al contrario, l’attività delle aree del cervello impegnate nei compiti di concentrazione e memoria ha avuto il suo picco in autunno ed è stata minima in primavera. A seconda della stagione, il cervello ha quindi dovuto impegnarsi di più o di meno, adottando anche strategie diverse, per ottenere gli stessi risultati. Questo dipenderebbe dal fatto che in certi periodi dell’anno, a causa o della lunghezza del giorno o del calendario delle ferie, il nostro cervello impiega più risorse per svolgere un determinato compito, affaticandosi di più.
Il Segreto di chi impara subito le Lingue
Chi apprende in minor tempo le lingue straniere ha più connessioni nel cervello
I ricercatori del Montreal Neurological Institute della McGill University in Canada hanno svelato il mistero per cui alcune persone apprendono più velocemente le lingue straniere rispetto ad altre. L’apprendimento risulta essere più o meno facile a causa di differenze innate nel modo in cui le diverse parti del cervello comunicano tra di loro. In particolare, quindi, chi ha più connessioni tra le diverse aree del cervello riesce ad apprendere nuovi linguaggi con maggiore facilità, inoltre è più veloce durante la lettura e più preciso nella pronuncia. I risultati della ricerca sono stati pubblicati sul “Journal of Neuro- science”.
L’equipe ha scansionato il cervello di 15 adulti di lingua inglese che stavano per iniziare un corso di 12 settimane di francese. Grazie alla risonanza magnetica funzionale, i ricerca- tori hanno esaminato la connettività all’interno del cervello dei soggetti sia prima che alla fine del corso. Hanno così scoperto che il modo in cui si sviluppa e funziona il “cablaggio” del cervello ha ripercussioni sulla capacità di apprendimento del corso in termini di maggiore velocità di lettura o di pronuncia.
Tuttavia, gli esperti rassicurano: il nostro cervello è un organo plastico che può essere plasmato dall’apprendimento e dall’esperienza, i risultati non significano quindi che il successo nell’imparare una seconda lingua sia interamente predeterminato dalla connettività del nostro cervello.
La Capacità di Astrazione dei Corvi
La capacità di astrarre non è una prerogativa umana
Una ricerca condotta da Thomas Bugnyar, esperto in cognizione sociale animale dell’Università di Vienna, e pubblicata su “Nature Communications” ha portato a importanti risultati per quanto riguarda lo studio del pensiero astratto. Finora si riteneva che solo gli esseri umani avessero questa capacità, la ricerca invece ha svelato che anche i corvi hanno la capacità di immaginare le intenzioni dell’altro senza la sua osservazione diretta.
Per sei mesi Bugnyar ha studiato dieci corvi allevati in cattività. I corvi sono stati posizionati in stanze vicine con finestre comunicanti inizialmente lasciate scoperte di modo che ciascuno potesse spiare i vicini mentre ricevevano razioni di cibo. In un secondo momento le finestre sono state oscurate, ma è stato lasciato uno spiraglio da cui gli animali hanno imparato a spiare e gli altri sapevano di poter essere spiati. È stato poi dato agli uccelli del cibo da nascondere, mentre in sottofondo risuonavano le registrazioni di versi di loro simili. I ricercatori hanno così notato che quando lo spiraglio della finestra era stato lasciato aperto, e c’era la possibilità di essere visti, gli uccelli celavano con particolare cura le provviste. Quando, invece, lo spiraglio era chiuso, i corvi non si allarmavano, come se sapessero che non potevano essere spiati. Secondo Bugnyar: “ciò suggerisce che i corvi facciano generalizzazioni basate sull’esperienza, e non si limitino a interpretare e rispondere al comportamento visibile di altri uccelli”.
L’Empatia nei Roditori
I roditori consolano i loro simili socialmente più vicini quando sono stressati o in difficoltà
Per la prima volta uno studio ha dimostrato l’esistenza di un comportamento empatico nei roditori. Finora, infatti, oltre che nell’essere umano e nelle grandi scimmie, il comportamento consolatorio era stato riscontrato in poche specie non umane con alti livelli di socialità e di cognizione, come elefanti, delfini e cani. Con comportamento di consolazione i ricercatori indicano un atto compiuto allo scopo di calmare un altro soggetto in difficoltà attraverso il contatto diretto, come baci e abbracci.
Lo studio, condotto dai ricercatori della Emory University ad Atlanta, dello Yerkes National Primate Research Center e dell’Università di Utrecht in Olanda e pubblicato su “Science”, ha rivelato che le arvicole delle praterie, roditori molto sociali, provano empatia e consolano i propri simili socialmente più vicini quando sono stressati o si trovano in difficoltà. Non solo, questo comportamento è regolato da meccanismi simili a quelli che si osservano negli esseri umani e che coinvolgono l’azione dell’ossitocina.
Per giungere a questi risultati, i ricercatori hanno osservato il comportamento dei membri di un gruppo di arvicole delle praterie: tutti i roditori, tranne uno, sono stati posti in un ambiente tranquillo, mentre un membro isolato è stato messo in un ambiente dove gli sono state somministrate lievi scosse alle zampe che ponevano l’animale in uno stato di stress. Quando hanno messo di nuovo insieme i roditori, quelli che non avevano subito le scosse hanno iniziato immediatamente a consolare l’animale stressato leccandolo e pulendolo, attività compiute per un tempo ben superiore a quello impiegato normalmente. Gli studiosi hanno, inoltre, notato che questo comportamento consolatorio era compiuto solo dagli animali della colonia imparentati con l’arvicola stressata o con cui questa aveva rapporti sociali più stretti.
Un Cervello più grande per risolvere i Problemi
Gli animali più abili nel problem solving hanno anche un cervello più grande
Esiste una correlazione tra dimensioni cerebrali e intelligenza? Sì, secondo lo studio di Sarah Benson-Amram e colleghi dell’Università del Wyoming, pubblicato sui “Proceedings of the National Academy of Sciences”.
Finora non era stato possibile avere una conferma sperimentale rigorosa a questa ipotesi.
La ricerca condotta su 140 individui di 39 diverse specie di mammiferi carnivori, tra cui orsi polari, volpi artiche, tigri, lontre, lupi, iene, e specie rare come binturong, leopardi delle nevi e ghiottoni, ha dimostrato come gli animali con un cervello più grande in rapporto alla massa corporea sono anche più abili nell’affrontare un problema nuovo. Non ha, invece, trovato conferma l’ipotesi del cervello sociale, secondo cui gli animali più intelligenti sarebbero anche quelli che vivono in gruppi più numerosi.
Disturbi dell’Alimentazione
È possibile individuarli dalle immagini della risonanza magnetica
L’Istituto di bioimmagini e fisiologia molecolare del Consiglio nazionale delle ricerche di Catanzaro e Milano (Ibfm-Cnr) in collaborazione con l’Associazione “Ippocampo” di Cosenza ha sviluppato un algoritmo in grado di determinare se un paziente è affetto da disturbi dell’almentazione, partendo dalle immagini della sua risonanza magnetica.
Gli ultimi studi in ambito di neuroimaging hanno sottolineato, infatti, che i disturbi comportamentali dell’alimentazione, come l’anoressia e la bulimia, non sono soltanto disturbi psicologici ma sono caratterizzati anche da piccoli danni neuronali a livello cerebrale, osservabili dalle risonanze magnetiche dei pazienti.
Due Pezzi di Legno sul Pavimento
Il bello superfluo nel gioco dell’arte contemporanea
di Davide Donadio
Due pezzi di legno appoggiati sul pavimento sono un’opera d’arte? La maggior parte di noi risponderebbe di no. E due lastre di metallo appoggiate in un angolo? No, sicuramente. È arte una superficie percorsa da segni e macchie casuali, un’immagine pubblicitaria a stampa strappata o replicata all’infinito, un manichino nudo appeso con una corda, e così via?
L’arte, fin dalla prima parte del Novecento, ha imboccato ben altre strade rispetto al figurativo tradizionalmente relegato nei confini della tela, nella “porzione” materiale che andava a costituire una scultura o tuttalpiù nella superficie di parete che ospitava l’affresco. Eppure, il senso comune dell’arte non ha seguito l’evoluzione del mondo artistico e del suo giro economico (milionario) in gallerie ed esposizioni: questi prodotti-situazioni che ci vengono presentati come arte, spesso non sono percepiti come tali al di fuori di quel circuito autoreferente.
Ma l’arte senza bello esiste e in qualche modo va spiegata. Tutto questo smonta secoli di riflessione sulla categoria del bello e sull’esperienza estetica associata all’arte. O meglio, rende la categoria del bello come una questione storica e relativa.
Vi è ancora, però, una certa resistenza a far proprio l’adagio popolare del “è bello ciò che piace”. Questo perché ci pare di scorgere universalmente che nel senso comune persiste un’idea di bello come di qualcosa che sia dotato di particolari proporzioni, di rapporto tra le parti che danno in qualche modo un naturale senso di piacevolezza.
Persino le neuroscienze, tra i paradigmi scientifici dominanti della nostra epoca, tentano di dare una spiegazione neurobiologica alla concezione del bello, come già era avvenuto in termini evolutivi (ci piace la bellezza di un determinato corpo perché potrebbe portarci vantaggi evolutivi e riproduttivi, pur nella variabile estetica contingente alla nostra epoca storica).
Ma qui, in queste brevi note, non parleremo del secolare e fumoso problema estetico, quanto di società e di arte contemporanea. Ed è proprio all’interno della sociologia dell’arte che possiamo spiegare la manifestazione artistica del nostro presente e del recente passato.
L’enigma ironico dell’arte contemporanea è il seguente: l’arte non ha forse più niente da dire, ma sa perfettamente come dirlo. Enunciazione paradossale e sibillina che forse diverrà chiara fra poco. La storia dell’arte contemporanea inizia con lo spostamento del baricentro dal vecchio continente (che rimane però ancora attivo) agli Stati Uniti, in particolare verso New York.
Nel nuovo mondo, l’arte imbocca con decisione la strada iniziata in Europa di ribaltamento dei canoni classici. Si pensi all’espressionismo astratto, nato negli anni Trenta, di cui Pollock è il rappresentante più noto, alla sua poetica del gesto: non ha importanza il risultato, cosa viene rappresentato, ma il gesto, quasi rituale, che lo produce.
Ed è ancora il gesto ad avere importanza nell’arte informale: Lucio Fontana taglia le tele e le mostra. Cosa significano in sé? Nulla. Conta il gesto di rottura con la tradizione.
Continuando con questo elenco esemplificativo, la Pop Art che riprende l’immagine commerciale come nuovo linguaggio universale senza più tenere conto dell’intimità dell’artista (Warhol), o la minimal art (siamo già negli anni Sessanta) che riscopre la semplicità dei volumi primitivi.
Non solo il senso del bello non si realizza nell’arte contemporanea, ma neppure viene perseguito. Non interessa semplicemente.
Chi scrive, pur essendo un conservatore ammiratore dell’arte figurativa dei secoli passati, sostiene che vi sia un peculiare senso di piacere che ci può derivare dalla fruizione dell’arte contemporanea: le parole che intorno ad essa si spendono.
I concetti che giustificano quei gesti e quegli oggetti, spesso inerti e qualche volta poco comunicativi, sono la vera arte. Se le pitture del passato erano il frutto di tecnica e perizia su cui si poteva teorizzare a posteriori, l’arte contemporanea nasce prima come parole e poi come gestoprodotto. Ma, e non so quanto questa posizione sia originale non seguendo la letteratura critica, è la prima parte a costituire prodotto artistico. Installazioni e immagini scompariranno nel passato prossimo futuro, e rimarranno le giustificazioni concettuali che le avranno generate. Si tratta, è giusto dirlo, spesso di puro gioco intellettuale fine a se stesso (o in qualche caso finalizzato a far alzare la quotazione sul mercato di un certo artista); tale gioco intellettuale non sempre è calato nel contesto storico contingente e frutto dello spirito del tempo, come siamo abituati a pensare l’arte. Il critico che legge oggetti d’arte partoriti dal minimalismo e spiega che gli spazi tra due volumi (un parallelepipedo di legno o di pietra) sono solo “volume in negativo” esemplificativi di una “importanza e valorizzazione del vuoto”, non di significati parla, ma di gioco. Di semplice gioco. E vi pare poco?
Se si desidera, quindi, superare quel senso di spaesamento o addirittura di superfluo che ci può cogliere nel frequentare mostre ed esposizioni di arte contemporanea, si consideri che non lì risiede il senso reale di quegli oggetti e di quelle situazioni, ma nel gioco delle teorie che le hanno generate.
Congressi Anircef
I convegni dei prossimi mesi
L’Anircef, l’Associazione Neurologica Italiana per la ricerca sulle Cefalee, ha pubblicato le date dei prossimi convegni. Per maggiori informazioni e per il programma si rimanda a www.anircef.it
Cefalee update
V edizione 9 aprile
Solbiate Olona (VA)
VIII giornata Anircef
in Lombardia 17 Giugno Brescia
56° Congresso Nazionale SNO
Le neuroscienze di oggi guardando al domani
Catania, 18-21 maggio 2016. Il programma è molto dettagliato ed è impossibile riportarlo qui per intero. È possibile consultare il programma completo al sito http:// www.avenuemedia.eu. Di seguito un estratto della presentazione del convegno di Erminio Costanzo, Presidente 56° Congresso Nazionale SNO, che illustra i contenuti del congresso.
“In questo nostro incontro scientifico, si è voluto dare rilievo alla prevenzione e alla terapia delle patologie neuro-vascolari con una sessione plenaria e con vari topics che affrontano e riposizionano sia i più recenti interventi farmacologici e sia le più attuali tecniche neuroradiologiche e neurochirurgiche.
Spazio è stato dedicato alle patologie neurodegenerative, in particolare ai disordini del movimento e al deterioramento cognitivo, così come alla patologia comiziale, alle neuropatie e alle malattie rare. Altro argomento (in collaborazione con il CNR) sarà la neurologia traslazionale con l’intento di trasferire, in modo rapido, le nuove conoscenze della scienza di base a quella biomedica così da generare applicazioni diagnostiche-terapeutiche avanzate, offrendo nel contempo nuovi strumenti di indagine. La medicina di genere, in questo convegno, farà il punto sull’attività, sulle possibilità e sulla complementarietà di vari specialisti nella gestione del paziente con neoplasie cerebrali […].
La sessione precongressuale SNO Internazionale in collaborazione con l’AIMA (Associazione Italiana Malattia di Alzheimer) coinvolge studiosi italiani e stranieri che avranno un ampio confronto su asimmetrie cerebrali e differenze emisferiche.
Nell’ottica di una continuità di cura, in cui una sanità diffusa segue il paziente neurologico in un continuum assistenziale, sono stati invitati come relatori i colleghi neurologi del territorio per verificare assieme le possibili strategie nella ricerca di una risposta efficace ai bisogni della comunità.
Sono coinvolti da protagonisti Infermieri Professionali, Terapisti della Riabilitazione e Tecnici di Neurofisiopatologia.”
Informazioni
Via Riva Reno 61 – 40122 Bologna
Tel. 051 6564300 – fax 051 6564334
E-mail. congressi@avenuemedia.eu
XIX Congresso Nazionale della Società Italiana di Neuropsicofarmacologia
11-14 Ottobre, Acireale
Tema del congresso sarà “Il farmaco e le neuroscienze”. Il congresso si svolgerà presso il Santa Tecla Palace
Hotel di Acireale Acireale (CT) dall’11 al 14 ottobre.
Queste le tematiche trattate: modelli animali di patologie neurologiche e psichiatriche – epigenetica e psicopatologia – farmacogenetica e farmacogenomica- farmacoeconomia – terapie off- label – il placebo come farmaco e le neuroscienze – nuovi target farmacologici – nuove sostanze di abuso – immunopsichiatria e psicofarmaci – gut microbioma e psicofarmaci – neurobiologia e farmacoterapia di: ADHD, disturbi depressivi, disturbo bipolare e correlati, schizofrenia, disturbo di panico e agorafobia, disturbi della nutrizione e dell’alimentazione, disturbo da stress post traumatico, disturbi dissociativi, disturbo ossessivo compulsivo, disturbi neurocognitivi, disturbi del sonno, disturbi del neurosviluppo.
Per maggiori info: www.sinpf.it
Neuroscienze e Giudizio Estetico
L’Invenzione della Bellezza
di Marco Ruini
Parole Chiave. bellezza, cervello, arte, neurobiologia, socialità.
Abstract. Quando si compiono atti come mangiare e bere, la gratificazione che si prova è istintiva e innata. Perchè si provi piacere davanti a un evento culturale, a un pensiero o a qualcosa che riteniamo “bello” è necessario che il cervello riconosca queste esperienze e le confronti con quelle passate. sebbene esista un’idea soggettiva di bellezza che si forma durante l’infanzia mediata da fattori emozionali inconsci, la vita sociale è governata da un’idea di bellezza comune imposta dall’esterno attraverso canoni culturali che portano a omologare e guidare comportamenti e desideri.
Neurobiologia del piacere e della gratificazione. Da quando le neuroscienze hanno ampliato l’interesse della scienza ai prodotti della mente umana, al pensiero e ai meccanismi della conoscenza, sono state identificate diverse correlazioni neurobiologiche, meccanismi e circuiti cerebrali chimici e fisici che sottintendono a processi puramente mentali come la capacità decisionale, il senso del piacere e, per quel che riguarda questo articolo, la percezione della bellezza. Il circuito più importante è quello della gratificazione e del piacere situato nel sistema limbico, nel diencefalo, che utilizza come neurotrasmettitore la dopamina. Il diencefalo è il centro che controlla le emozioni. Una bella emozione provoca il rilascio di dopamina che si unisce a recettori specifici che provocano sensazione di benessere e piacere e che inducono il desiderio di ripetere l’esperienza. Questo sistema è comune a tutti i mammiferi, la sua funzione è di rendere piacevoli alcuni comportamenti istintivi come l’attività sessuale, il mangiare e il bere indispensabili per la sopravvivenza dell’individuo e della specie. L’essere umano ha imparato a utilizzare questi circuiti della gratificazione anche per premiare e rinforzare aspetti culturali come il godimento dell’arte, della bellezza, dell’ironia, della lettura, di un evento sportivo o di una serata in compagnia di amici, liberando dopamina e altre sostanze che rendono un’attività o un comportamento piacevoli e desiderabili anche se non legati alla sopravvivenza dell’individuo o della specie. Mentre la gratificazione nel mangiare, bere, fare sesso è istintiva e innata, perché si provi piacere davanti a un evento culturale, a un pensiero o alla bellezza è necessario che il cervello riconosca queste esperienze e le confronti con le esperienze passate. Apprendimento e memoria sono essenziali.
Meccanismo della conoscenza. Il cervello utilizza poche ma importanti strategie di funzionamento che permettono però un’enorme potenzialità espressiva. Noi percepiamo l’ambiente e il mondo attraverso i sensi: l’udito, il tatto, la vista, il gusto, l’olfatto. Recettori appositi producono stimoli chimici che mediante i nervi periferici arrivano prima al diencefalo, dove sono localizzati i centri per le emozioni e si generano le risposte istintive, e quindi alla corteccia cerebrale per essere interpretati. La realtà esterna non ci appare quindi com’è, ma viene prima filtrata dai sensi e poi interpretata dal cervello. Il mondo esterno è quello che i nostri sensi ci mostrano: una realtà soggettiva, relativa, influenzata in ogni individuo dalle conoscenze acquisite, dalle esperienze, dai valori morali, dalla cultura. Il cervello, per trasformare in conoscenza gli stimoli che riceve dall’esterno, deve riconoscerli, catalogarli, memorizzarli e saperli ricordare al momento giusto. Per fare questo utilizza capacità innate come quella astrattiva che ci permette di formare un’idea generale a partire dal particolare, riuscire cioè ad astrarre da un oggetto dei particolari e ritrovandoli simili in altri oggetti, creare dei concetti.
Una volta vista e identificata una casa, quando successivamente il nostro cervello si troverà di fronte un oggetto con una porta, delle finestre, un tetto, lo riconoscerà come casa anche se forma, colore, dimensioni saranno diverse da quella che aveva conosciuto. Così creerà tanti concetti: quello di albero, fiume, mare, monte. Il linguaggio ha dato all’essere umano la possibilità di utilizzare simboli e metafore, di sottintendere cioè altri significati a segni e parole. I concetti semplici, ad esempio quello di casa, associati a simboli particolari, formeranno concetti più complessi come quelli di scuola, edificio religioso o sportivo. I concetti sono tutti rappresentazioni mentali e codificano allo stesso modo oggetti o profili ideali come quello di bellezza. Esiste un’idea soggettiva di bellezza, individuale che si forma nell’infanzia e che è legata al senso di protezione e al piacere degli affetti e dell’ambiente. Alcune linee del viso della mamma, il tono della sua voce, il sorriso del padre e così via, anche se sgraziati e tutt’altro che belli per gli altri, possono imprimersi nell’inconscio e contribuire alla nostra idea di bellezza che ci accompagnerà tutta la vita e farà si che, ritrovando alcune somiglianze nei lineamenti o nella voce dei partner, li troviamo più simpatici e interessanti, belli ai nostri occhi. Fattori emozionali inconsci sarebbero quindi in grado di influenzare la nostra idea di bellezza che abbraccia anche comportamenti, atteggiamenti, istanze morali. È una fortuna che questo avvenga per la variabilità genetica della nostra specie e non è scontato. In altre razze animali sono solo gli individui migliori a riprodursi. Per alcuni pensatori questa bellezza soggettiva si avvicina a standard di bellezza innati. Esisterebbe un bello oggettivo comune a tutte le culture e a tutte le latitudini, in base al quale ogni essere umano troverebbe belle, in modo innato, quelle cose e quegli ambienti naturali che offrono sicurezza e tranquillità: i tratti femminili o infantili dei volti, i paesaggi con prati, boschi e laghi, alcuni colori come il verde, l’azzurro e il giallo, mentre il nero trasmetterebbe ovunque angoscia e il rosso color sangue, aggressività. Così, secondo la scuola pitagorica e di quei filosofi che vedono armonia e ordine nel mondo, le figure simmetriche che rispettano nelle proporzioni la sezione aurea o numero d’oro, il Phi greco 1,618, o la sequenza numerica di Fibonacci, fanno parte di un canone estetico ritenuto bello assoluto e utilizzato sia in natura (nautilus, girasole ecc) che dai grandi pittori e musicisti. Per questa corrente di pensiero il cervello non ama il caos e preferisce l’ordine naturale. Di contro altri pensatori ritengono che in natura non ci sia nessun ideale universale di bellezza e che questa dipenda sempre da esperienze individuali. Ad esempio, nel diciottesimo secolo le montagne, i boschi, i loro pericoli e la cultura montanara erano considerati primitivi e angoscianti, non certo belli e tranquillizzanti. Che l’ordine venga culturalmente imposto al nostro cervello lo dimostrerebbe la cultura orientale che predilige il caos, la spontaneità, la ricerca individuale, all’ordine e all’universale. Rimane comunque l’idea di una bellezza soggettiva che, anche se non innata, si forma in base alle esperienze della prima infanzia e rimane ben salda nel nostro inconscio.
Invenzione del canone di bellezza. Vediamo bene in ogni occasione della nostra vita che la bellezza non è solo una percezione, un’emozione inconscia soggettiva. Soprattutto in occidente si è utilizzata anche un’altra idea di bellezza, culturalmente e storicamente mediata, che pur variando in forma e contenuti, è rimasta costante nel fornire modelli ideali, collettivi e omologanti, fonte di privilegi per chi ne ha detenuto il controllo. La bellezza è da sempre usata per trasmettere cultura, per favorire l’apprendimento e stimolare la conoscenza. Il piacere del sapere ha gli stessi circuiti neuronali di ogni altra forma di piacere. La bellezza può però servire a bloccare curiosità e dubbio, le basi della conoscenza quando si pone a sostegno di una verità assoluta. In occidente tutto sembra partire dalla Grecia. La bellezza ideale dell’arte greca, estrinsecata nella rappresentazione del nudo, sta alla base della nostra cultura artistica tanto che lo studio del corpo umano è ancora fondamentale nelle nostre accademie di disegno. Il nudo pone l’opera fuori dal tempo e dal contesto, esclude il simbolico terreno così che la bellezza di questi corpi avvicina l’uomo agli dei, che avevano sembianze umane. In oriente, invece, lo studio è stato rivolto al paesaggio e alle rocce, alla perfezione dell’atto e alla sintonia con la natura. Ma cos’era la bellezza nel mondo greco antico emerge dalla tragedia attica. Queste opere che venivano lette e recitate nei teatri rappresentavano l’essere umano, sempre al centro, nelle sue contraddizioni e come contenitore di istanze opposte. Da una parte lo spirito Apollineo, legato alla spiritualità della vita, al mondo ideale, al collegamento con il mondo degli dei, dall’altra lo spirito Dionisiaco frutto della vita reale, terrena, dei piaceri offerti dal nostro corpo, delle soddisfazioni della vita che però non dimentica il suo aspetto mortale. Da qui, da questa consapevolezza, nasceva la tragedia e la bellezza dell’uomo stava proprio nel contenere questi opposti, nell’equilibrio che permetteva di avere soddisfazione da questa vita mortale elevando però lo spirito a un mondo ideale. Da Platone in poi, per oltre duemila anni, lo spirito Apollineo ha preso il sopravvento. La bellezza non risiede più nel nostro corpo e nella vita terrena, ma in un altrove ideale, nel mondo delle idee, in una luce fuori dalla dimensione umana. La dottrina Cristiana utilizzerà questa idea Platonica e con Agostino convertirà il Dio del terrore o dell’amore in un Dio bello, ribadendo la bellezza della trascendenza e del cielo, creatore e modello di ogni bellezza. Nella bellezza pura del paradiso la vita continuerà, la morte verrà vinta e la tragedia attica, che faceva perno sulla caducità della nostra vita, non avrà più spazio. Plotino, infine, parlerà di“… quella forma-idea della bellezza utilizzata come si utilizza una riga per giudicare se una cosa è dritta”. È la creazione di un canone di bellezza che esalta lo spirito Apollineo mentre relega il Dionisiaco e il terreno, compresa la donna, al male, alla bruttezza, al demonio. È l’utilizzo della bellezza nella formazione delle coscienze. In occidente coesisteranno per secoli un bello aggettivo da riferirsi alle cose e “Il bello” sostantivo relativo all’idea del bello assoluto al quale dobbiamo aspirare seguendo un preciso canone estetico ed etico. Per secoli l’idea della bellezza è stata, così, sbilanciata a uno degli opposti, quello spirituale, demonizzando tutto ciò che è bellezza o piacere terreno. Questa idea di bellezza assoluta, lontana da noi, ma raggiungibile in un altro mondo in base alla nostra condotta di vita, ha favorito l’apprendimento di un vero e di un buono assoluti. Questa cornice di senso di stampo religioso che ha offerto al potere spirituale/terreno il privilegio di poter decidere cosa sia vero, cosa sia bello e cosa sia buono, ha dominato la vita sociale almeno fin quando il mondo ha iniziato a secolarizzarsi. Il paradosso è che, nel mondo moderno, altre cornici di senso hanno preso il posto della religione e della trascendenza mantenendo inalterata l’idea di una bellezza calata dall’alto e sempre altrove rispetto a noi: il partito, il sol dell’avvenire, l’idealismo, la scienza, il mercato si sono via via avvicendati nel dirci cosa dobbiamo intendere per vero, bello e buono. Ne sono esempio le propagande dello stalinismo e del nazismo che avvicinavano i leader alla bellezza assoluta e utilizzavano l’Arte e la bellezza per diffondere valori come la fedeltà e il lavoro al servizio dello Stato. I regimi moderni si comportano nello stesso modo. La sublimazione dei leader avviene ancora attraverso la bellezza, dei quali sono i portatori, che ha la funzione di conquistare consenso. La bellezza, utilizzata in modo utilitaristico, serve quindi sia l’estetica che la politica. Questo schema è stato posto in discussione dall’arte moderna e contemporanea, che ha smascherato la sua ambiguità, e dalle neuroscienze che scientificamente hanno dimostrato l’inconsistenza di queste verità assolute e il relativismo di ogni prodotto della mente dell’uomo.
Bellezza e desiderio. Governando cosa sia vero, bello e buono chi detiene il potere politico e culturale di un dato periodo storico, cala dall’alto i suoi valori e condiziona scelte e desideri promuovendo una bellezza “in comune”, data per opinione pubblica, ma figlia di mode, pubblicità, suggestioni morali, leggi di mercato. In questa società dove l’omologazione e l’apparenza guidano i desideri è molto evidente che l’idea di bellezza non nasce dalla nostra soggettività. Il cinema è stato l’esempio più lampante di come nuovi miti, non più trascendentali, ma legati alla società dei consumi, abbiano imposto una bellezza culturalmente mediata che ha creato mode, ha influenzato la psicologia e i comportamenti dei consumatori modificando il modo stesso di rapportarci agli altri, di tenere la sigaretta, di rimanere seduti sulla moto, di provare piacere, di fare sesso, di consumare. Una bellezza che ha occupato i nostri sogni e stimolato desideri comuni sempre più incalzanti e impegnativi, in un surplus di godimento mai pago che si riduce all’omologazione a un modo di essere e di pensare che risponde solo a esigenze di mercato. La televisione, con la trivializzazione dei programmi e dei messaggi e la banalizzazione della pubblicità, ha in parte smitizzato l’Olimpo del Cinema, apparentemente democratizzato l’accesso alla bellezza ora appannaggio di tutti, a patto di restare all’interno delle mode e dei consumi. Rimane quindi una bellezza, molto più differenziata, ma sempre calata dall’alto. Basta leggere Il discorso dei capelli di Pasolini (in Scritti Corsari) per capire come il mercato riesca a far suo e sfruttare ogni spunto di soggettività, i capelli lunghi allora, i tatuaggi oggi, trasformandoli da forme di protesta o di manifestazione di una propria individualità a mode omologanti. È però evidente che il sistema dell’industria culturale di massa ha cambiato soggetto, dal divismo e dalla bellezza collettiva il mercato ora ha disseminato l’idea di bellezza anche su quei piaceri corporali che fino a pochi anni fa erano amorali e diseducativi. Ha semplicemente innalzato il valore di consumo, delle cose, del corpo, della cultura a metro di bellezza ribaltando inizialmente il detto “è bello ciò che piace”, figlio del pensiero antico, in “ciò che è bello, piace” dell’era moderna dove il bello è determinato dall’esterno e il piacere si adegua. L’ultimo effetto, contemporaneo, della legge di mercato è “ciò che vale è bello” e quindi “ciò che vale piace”. Sono le cose che valgono, oggi, fonte d’invidia e di desiderio, mentre l’idea di bello è sempre relativa al contesto. Un oggetto kitch o trash, pubblicizzato bene o trasformato in oggetto cult, di valore e quindi elitario, diviene bellissimo. La storia dell’arte ci aiuta a capire questo stravolgimento.
Arte e bellezza. La fruizione dell’arte è strettamente legata ai fattori emozionali che generano piacere e gratificazione, e utilizza, del cervello, le stesse strategie che portano alla conoscenza e alla interpretazione del mondo. L’Arte è un importante veicolo di conoscenza. La percezione dell’arte stimola reti neuronali che provocano nel cervello dei correlati neurobiologici e possiamo dire che, tra le tante forme di linguaggio, quello dell’arte riesce a utilizzare al massimo le capacità di astrazione, di formazione dei concetti e di utilizzo delle metafore che sono i perni della conoscenza. Ma come può un’opera d’arte provocare un’emozione? Come mai riconosciamo in un oggetto un’opera d’arte mentre per altri è insignificante? Perché il bello non è universale? Ci viene in aiuto Danto con la sua opera del 1981 La trasfigurazione del banale. Secondo questo autore a fare l’opera d’arte è in primo luogo quel che sappiamo, non quel che sentiamo. Le creazioni culturali di successo devono echeggiare quanto del mondo già sappiamo e percepiamo, riagganciarsi a significati pre-esistenti. L’arte che lascia il segno ha in se un elemento di originalità o di innovazione, ha un tocco di sorpresa, ma non così profondamente originale o strano da non poter essere riconosciuto dal pubblico. Per riconoscere la bellezza e l’arte in un oggetto, in una poesia, in un brano musicale occorre che questo richiami in noi qualcosa che già sappiamo e conosciamo (questo è l’aspetto gratificante che stimola i circuiti cerebrali del piacere), e che aggiunga un surplus di novità che oltrepassi i confini, si apra all’immaginazione, sia fonte di meraviglia e del brivido dell’inesplorato (fonte di piacere per alcuni, di paure per altri). Le radici sono quindi importanti, come ha capito alla fine il protagonista de La grande bellezza di Paolo Sorrentino. La cultura e le conoscenze di chi fruisce dell’opera sono indispensabili per farci provare l’emozione del bello. Secondo Duchamp è colui che guarda che ricostruisce i significati e completa l’opera creativa. Quando l’avanguardia ha pochi collegamenti con il passato e con la gente, resta appannaggio di una piccola elite. Per farsi riconoscere deve quindi scandalizzare, alzare la voce o nessuno sentirebbe. Oppure necessita di un importante apparato critico che crei una cornice di senso. Slavoi Zizek in Il trash del sublime (2013) spiega come dopo i ready made di Duchamp e la Merda d’artista di Manzoni (1961) è diventato evidente che ciò che fa di un oggetto un’opera d’arte non sono semplicemente le sue caratteristiche materiali, ma il luogo che occupa, il luogo simbolico dell’arte che non è tanto l’istituzione o l’accademia quanto la cornice di senso. Se nell’epoca premoderna questa cornice era data dalla religione e dal mito, nell’epoca moderna dove il mito era passato alla scienza, il sociale, la realtà, l’inconscio hanno rappresentato questa cornice. Con il distacco dell’arte dalla vita e la morte dell’arte tradizionale sostituita da un’arte autonoma, l’arte per l’arte, come ipotizzato da Hegel, l’artista si è trovato a dover creare, prima ancora dell’opera d’arte, una cornice di senso per il proprio lavoro. Per un certo periodo l’ha trovata nel rifiuto degli accademismi, della bellezza, dei vincoli (Marinetti ha chiamato il manifesto del futurismo del 1909 Uccidiamo il chiaro di luna), poi ha utilizzato il negativo, come gli escrementi, per screditare un’arte che non sapeva più dove andare e che infine è stata completamente assorbita dal mercato. Sono i critici d’arte ad aver sopperito alla ricerca di cornici di senso per portare avanti i propri protetti. E noi cittadini o amanti della creatività e soprattutto collezionisti ci siamo lasciati portare per mano dai nuovi modelli di bellezza, dal kitch al trash, dal gigantismo alla tecnoart, dalle performance all’arte ingenua, accalorati, irretiti sempre più non tanto dalle suggestioni, quanto dal valore di mercato. L’arte ci conferma ancora una volta come i circuiti cerebrali che riconoscono la bellezza e producono le emozioni, siano governati da canoni e mode che ci giungono dall’esterno, la bellezza è una costruzione sociale che è servita per duemila anni a selezionare privilegi e potere e, ora, serve a sostenere un’economia di mercato dove è bello ciò che vale. Ci conferma anche che la nostra vita sociale non può fare a meno della bellezza. Oggi ci sono tanti tentativi di ricreare messaggi identitari attraverso forme di bellezza autonome, vedi i modelli Punk, i tatuaggi, il misticismo, la street art, ecc., ma ogni volta che uno di questi ha successo, la moda e il mercato lo inquinano e lo colonizzano. Sappiamo però che è anche possibile far crescere una bellezza soggettiva, non è scontato che ci si debba tutti omologare. È necessaria un’educazione diversa alla creatività, alla bellezza, alle emozioni e soprattutto un modo di vedere il mondo da più angolazioni, come se lo si vedesse dall’esterno, per poterci liberare da desideri incongrui, luoghi comuni, mistificazioni e essere un po’ meno asfissiati da condizionamenti e paure di uscire dallo spazio protetto e sicuro dell’omologazione, della normalità. È il tentativo che stiamo cercando di attuare associando di nuovo cultura scientifica e umanistica, scienza e arte.
Indicazioni Bibliografiche
Jean Pierre Changeux. Il bello, il buono, il vero. Raffaello Cortina Editore. 2013
Arthur C. Danto, La trasfigurazione del banale, (1981) Laterza 2008 Pier Paolo Pasolini. Scritti corsari
Marco Pivato. Noverar le stelle. Cosa hanno in comune scienziati e poeti. Donzelli, 2015
Franco Rella. L’enigma della bellezza. Feltrinelli. 1991
Carlo Rovelli. La realtà non è come appare. Raffaello Cortina Editore 2014 Semir Zeki. Splendori e miserie del cervello. Le scienze. 2011
Semir Zeki. La visione dall’interno. Bollati Boringhieri. 2003 Slavoj Zizek. Il trasch sublime. Mimesis. 2013
Cervello e Percezione Estetica
Dall’Occhio Biologico all’Occhio della Mente
di Bruno Zanotti e Angela Verlicchi
Parole chiave. Neuroestetica, informazione sensoriale, codici neuronali.
Abstract. tutte le rappresentazioni complesse, comprese quelle emotive e di godimento estetico, sono percepite dalla mente attraverso la percezione sensoriale e la sua elaborazione dovuta al sistema nervoso. l’articolo descrive in termini divulgativi come nella costruzione di queste rappresentazioni interne del mondo visivo sia possibile rilevare l’opera dei processi creativi del cervello stesso. si introduce, inoltre, il concetto di correlazione tra percezione (propria anche del godimento estetico) e coscienza della percezione stessa, avanzando una visione non unitaria della coscienza. In altre parole, fenomeni complessi sarebbero il frutto di “microcoscienze”, generate indipendentemente ed autonomamente in diverse aree corticali.
La totalità dell’informazione sensoriale che arriva al cervello viene convertita in codici neurali, cioè in schemi di potenziali d’azione generati dalle cellule nervose. Queste ultime, dette neuroni, sono le unità elementari del sistema nervoso centrale che, mediante la generazione di brevissimi potenziali elettrici “tutto o niente”, veicolano le informazioni di vista, udito, tatto, ecc. dalla periferia alla corteccia cerebrale.
L’informazione sensoriale in entrata, ai livelli superiori viene analizzata ed elaborata alla luce dell’esperienza passata e sfocia nella generazione di una rappresentazione interna che è percezione del mondo esterno.
Tutto quanto viene correlato alla cosiddetta neuroestetica, di fatto trae origine dagli studi sul sistema visivo ed i relativi correlati neuronali che portano alla trasduzione-integrazione cosciente degli stimoli luminosi.
Infatti, si è soliti sostenere che il cervello è creativo in quanto genera le rappresentazioni interne di tutto ciò che, in qualità di osservatori e/o artisti, “vediamo” intorno a noi.
Sappiamo che l’attività delle cellule nervose in specifiche regioni del cervello ci induce sia alla percezione di quello che si identifica con l’arte sia alla risposta emotiva che questa da luogo nello spettatore.
Ma quali sono i meccanismi neurali che sottendono i nostri processi visivi ed emotivi?
È acclarato che la visione inizia negli occhi. Questi sono deputati a rilevare le informazioni che arrivano dal mondo esterno sfruttando gli stimoli luminosi. Una lente, il cristallino, concentra, capovolge e proietta una piccola immagine del mondo esterno in modalità bidimensionale su una superficie denominata retina. La retina, in estrema sintesi, è uno strato di cellule nervose differenziate che riveste la parete posteriore dell’occhio. Per meglio comprendere si può ritenere che le cellule specializzate della retina rappresentano l’oggetto esterno allo stesso modo in cui i pixel dell’immagine sul computer somigliano all’immagine reale che si visualizza sullo schermo. Va subito affermato che sia il sistema computazionale sia il sistema biologico portano ad una elaborazione delle informazioni. Infatti, il sistema visivo, a livello cerebrale elabora delle rappresentazioni, i cosiddetti codici neurali, sintesi di una grande quantità di elaborazioni, che sono di gran lunga maggiori delle scarne informazioni che arrivano al cervello dall’organo della vista.
L’immagine della retina viene dapprima decostruita in segnali elettrici e poi questi segnali vengono ricodificati ed, in base alle regole della Gestalt e dell’esperienza precedente, ricostruiti ed elaborati nell’immagine che percepiamo. Anche se i dati raccolti dagli occhi non sono sufficienti per formare il contenuto ricco di ipotesi che definiamo visione, ci pensa il cervello generando ipotesi molto accurate.
Nella costruzione di queste rappresentazioni interne del mondo visivo è possibile rilevare l’opera dei processi creativi del cervello stesso.
“L’occhio della mente” va quindi ben oltre quell’immagine complessiva sulla retina del nostro occhio fisico. Tutte
queste informazioni aggiuntive sono frutto di una elaborazione a più livelli che si crea all’interno del cervello stesso. La via della visione è una circuitazione che si estrinseca in parallelo. Della complessa via della vista (o, meglio, delle viste) va menzionato almeno il talamo che si trova al centro di ciascun emisfero cerebrale e rappresenta un grande collettore dove giunge e riparte verso la corteccia cerebrale tutta l’informazione sensoriale, tranne quella olfattiva. Il talamo ha un nucleo, denominato genicolato laterale, che è specializzato nella visione e porta ad una prima elaborazione dell’informazione che proviene dalla retina dell’occhio per poi inviare quanto implementato alla corteccia visiva primaria nel lobo occipitale e successivamente ad una trentina di altre aree supplementari nei lobi occipitali, temporali e frontali della corteccia cerebrale. Questo ci porta a dire che le cellule nervose che sono deputate all’elaborazione dell’informazione visiva sono raggruppate in centri gerarchicamente strutturati dove ciascun aggregato elabora un particolare processo di trasformazione dell’informazione in entrata in modalità altamente specializzata.
In sostanza, una data area analizza ed implementa tutti i dati in entrata e la stazione successiva li rianalizza, ma portando l’informazione ad un livello più elevato. Da questo consegue che se si verifica un danno in un determinato distretto visivo, non si perderà l’intera visione, ma solo un aspetto parcellare della visione, per esempio il colore. Da questo discende anche un altro assunto postulato da Samir Zeki: non vediamo tutto contemporaneamente.
Il colore è visto prima del movimento e prima della forma. L’espressione del viso è vista prima del riconoscimento fisionomico: vediamo prima la rabbia che emana il volto e poi identifichiamo a chi appartiene quel viso. Tutto questo complessivamente si situa in un tempo di cento millisecondi.
Non va dimenticato che esiste un’altra piccola area nel tronco encefalico, precisamente nel mesencefalo, che contiene degli aggregati neuronali che sono implicati nella gestione dei movimenti oculari. Movimenti che sono importanti nella selezione degli oggetti rilevati nel mondo esterno, compresi quelli che vediamo in un dipinto.
Il concetto di “vedere” ha come epifenomeno il fatto di “essere coscienti”. Da questo discende che la coscienza non solo è distribuita nello “spazio”, ma anche nel “tempo”. Perché si è coscienti del colore dopo essere stati coscienti del movimento. Se questo assunto è vero, ne deriva che non esiste una coscienza unitaria (tranne quella che identifica il nostro sé ed è l’unica disponibile tramite il linguaggio), ma piuttosto esistono molte “microcoscienze”. In altre parole, la coscienza fenomenica di una determinata scena, costituita da molteplici elementi quali contorni, colori, movimento, suoni, ecc., potrebbe essere il risultato di una serie di coscienze atomiche, definite microcoscienze, generate indipendentemente ed autonomamente in diverse aree corticali. Il legame di singoli attributi sfocerebbe in una “macrocoscienza”. Se questi legati fossero non coerenti potrebbero portare ad associare un colore “sbagliato” con forma e movimento “giusti”. Questo si genererebbe nelle fasi in cui il cervello “collega” le varie elaborazioni-implementazioni visive.
Ma come avviene il “trionfo analitico della percezione visiva”? Secondo Richard Gregory il cervello non può essere paragonato ad un libro illustrato: “Quando vediamo un albero c’è un immagine ad albero nel cervello?” La sua risposta è perentoriamente negativa. Il cervello, invece di possedere un’immagine, ha un’ipotesi su un albero e su altri oggetti del mondo esterno che riflette l’esperienza cosciente del vedere.
Tesi sostenuta anche da Francis Crick che ha affermato che per quanto ci possa sembrare di avere nel cervello un’immagine del mondo visivo, in realtà ne abbiamo una rappresentazione simbolica, un’ipotesi.
E.K. Kandel, per semplificare la comprensione, sostiene che basta pensare ai computer o ai televisori. Sono apparecchi che presentano continuamente delle immagini, ma se apriamo il computer o la televisione non troviamo elementi fisici che “contengano” ordinatamente le immagini, ma troveremo invece dispositivi atti a trattare ed elaborare dati codificati. Nel mondo biologico, non abbiamo ancora tutti i dettagli dei meccanismi neurali che sottendono a questa raffigurazione simbolica. Simbolo che, rammentiamolo, rappresenta qualche cosa che sta per qualche cosa d’altro, come fa la parola.
Assodato che la bellezza, la carità, la pietà, l’amore sono tutte frutto dell’attività neurale, c’è comunque da chiedersi perché gli esseri umani creano ed amano l’arte. Non solo, esistono degli “universali estetici” valevoli come sottofondo per tutti?
C’è da pensare che l’arte in definitiva è stata elaborata e si è evoluta come “simulazione virtuale della realtà”. Ma anche dire ciò può essere riduttivo. Forse si avvicina di più chi pensa che l’arte sia una metafora. Il fatto è che però, ad oggi, non sappiamo quale sia la base neurale della metafora.
In definitiva, per ora, si può solo adottare l’aforisma di Chris Frith: “la nostra percezione del mondo è una fantasia che coincide con la realtà”.
Bruno Zanotti. ph.d. in scienze e tecnologia cliniche, specialista in Neurologia e Neurochirurgia. segretario Nazionale della Società di Neuroscienze Ospedaliere (SNO). Direttore Scientifico della rivista “Topics in Medicine” ed Editorial assistant del periodico “Progress in Neuroscience”.
Angela Verlicchi. specialista in Neurologia, collabora con la “Libera Università di Neuroscienze anemos” di Reggio Emilia e l’Associazione “SOS Cervello”. Con B. Zanotti ha pubblicato, fra l’altro, “Il coma & Co.” ed ha curato il volume “Statovegetativo.it – I limiti della medicina che salva”. È direttore editoriale della new Magazine edizioni.
Indicazioni bibliografiche
Crick F., La scienza e l’anima. Rizzoli, Milano, 1994.
Frith C., Inventare la mente. Raffaello Cortina Edi- tore, Milano, 2009.
Gregory R.L., Vedere attraverso le illusioni. Raffaello Cortina Editore, Milano, 2010.
Kandel E.R., L’età dell’inconscio. Raffaello Cortina Editore, Milano, 2012.
Ramachandran V.S., Che cosa sappiamo della mente. Mondadori, Milano, 2006.
Zeki S., Con gli occhi del cervello. Di Renzo Editore, Roma, 2008.
La Bellezza Fotografica
Tra Realtà, Errore ed Inganno
Di Marco Aguggia
Parole chiave. Fotografia, aree cerebrali, realtà, percezione.
Abstract. Quando osserviamo un’immagine, un determinato numero di specifiche aree cerebrali lavora contemporaneamente su diversi aspetti dell’immagine visiva, sulla determinazione del colore, sull’analisi del movimento e sul riconoscimento dei volti. Attraverso i millenni gli artisti hanno agito inconsapevolmente come neurologi nel determinare quali costruzioni e composizioni siano in grado di stimolare la nostra mente.
La percezione visiva fotografica. I moderni strumenti di immagine funzionale cerebrale offrono la possibilità di fissare immagini estremamente precise dettagliate, consentendo il rilievo aspetti sempre più nuovi dell’attività e della struttura cerebrale, favorendo il progresso della ricerca nell’ambito delle neuroscienze.
Con un meccanismo ancora in buona parte sconosciuto la mente cosciente percepisce, analizza e giudica un’immagine come coerente ed anche bella. La percezione visiva può essere suddivisa in due fasi: nel corso dell’elaborazione Bottom-up (scansione visiva iniziale) le caratteristiche salienti di una scena ricevono attenzione focalizzata immediata (o fissazione) durante la quale il percorso di scansione della nostra visione rapidamente campiona l’immagine per ritornare poi velocemente, più volte, alle caratteristiche più interessanti. La seconda fase della percezione visiva implica invece una direzionalità volontaria dello sguardo (volition). Questa fase attentiva, definita come Consapevolezza Top-Down, si fonda su caratteristiche tipicamente individuali. Nella visualizzazione di un’opera d’arte, la scansione visiva iniziale (Consapevolezza Bottom-up) può dare risalto ai volti e ad altre caratteristiche salienti, per fornire una prima impressione. Nella seconda fase (Consapevolezza Top-Down), l’osservatore può utilizzare la formazione, l’esperienza e l’educazione per valutare il lavoro contestualizzando l’opera. Le due fasi di percezione visiva descritte coinvolgono reti neuronali che appartengono al cosiddetto DMN (Default Mode Network), costituito da aree fronto-temporo-parietali, cingolate ed ippocampali.
Le immagini artistiche possono essere suddivise, nell’apprezzamento estetico, in due tipi: “immagini Albertiane” (dagli studi di Leon Battista Alberti) ed “immagini Kepleriane” (dalle scoperte di Joahnnes Keplero) che danno vita a due modi distinti di relazionarsi con l’immagine.
Le prime sono assimilabili a finestre attraverso cui l’osservatore si affaccia su una visione non reale che esaurisce il suo significato all’interno della cornice. Le seconde, kepleriane, sono immagini in cui la cornice è rappresentata dall’esperienza visiva di un osservatore nei confronti del mondo reale. La fotografia è il mezzo più potente per la diffusione di immagini kepleriane, avendo in sé una struttura tecnica in grado di testimoniare fedelmente il punto di vista di un osservatore. Da qui l’ipotesi che il giudizio estetico delle due differenti rappresentazioni artistiche coinvolgerà attività cognitive differenti ciascuna con specifiche strategie interpretative proprie.
Come detto, la visione fotografica attiva determinate aree cerebrali, quali la corteccia prefrontale ventromediale e la corteccia visiva primaria. Nell’ambito di differenti espressioni artistiche, i recenti studi di fMRI hanno dimostrato come la percezione di una rappresentazione corporea in un’opera pittorica attivi reti neuronali ed aree cerebrali differenti rispetto alla percezione di un’immagine fotografica. Nel primo caso verrebbero reclutate aree cerebrali parietali, soprattutto di destra, e corteccia extrastriata mentre nel secondo caso la corteccia ventromediale frontale sarebbe primariamente interessata insieme alle aree corticali visive primarie. (Fig. 3.1)
Fin da subito la fotografia venne utilizzata anche come strumento scientifico, ciò in considerazione della sua nascita a seguito di studi chimici, ottici e geometrici. L’essere da subito considerata mezzo di rappresentazione reale del mondo, diede ad essa un’autorevolezza comparabile alla scienza stessa. La luce (natura) era l’attrice attiva mentre il fotografo (artista) era osservatore e ricercatore, similmente allo scienziato. Dopo la nascita del dagherrotipo, ogni periodo dotato di uno stile pittorico distintivo ebbe una maniera fotografica parallela derivata ed ispiratrice, modellante la corrente pittorica del momento. (Fig. 3.2)
Determinante fu la capacità fotografica di analizzare e riprodurre immagini in maniera superiore alle capacità visive dell’uomo. Edweard Muybridge nel 1878 studiò il movimento del cavallo durante il galoppo, dimostrando che, almeno in un preciso istante, le zampe dell’animale venivano a trovarsi contemporaneamente sollevate dal terreno. Tale rilievo, impossibile ad occhio nudo, aveva per lungo tempo sollevato discussioni e dispute con tentativi infruttuosi di dimostrazione in altro modo. (Fig. 3.3)
Il giudizio estetico fotografico. Mentre l’occhio compie un’azione di pura registrazione soggettiva, la fotocamera è un mezzo impregnato di oggettività. La fotocamera non possiede l’anima (intesa come “la capacità di provare emozioni e trasferirle all’immagine”) e diviene quindi compito del fotografo tentare di sopperire a questa carenza, per far sì che la visione del mezzo meccanico si avvicini a quella fornita dal proprio sistema visivo. Il tentativo ultimo del fotografo è quindi quello di essere in grado di riprodurre la sua “immagine mentale”, superando le limitazioni oggettive date dal mezzo fotocamera, per assimilarla al proprio sistema visivo. Nell’osservare una fotografia, appare naturale domandarsi: perchè mi piace? Cosa mi attrae di più di quest’immagine rispetto ad un’altra? Esistono regole tangibili intersoggettive che determinano un giudizio di unanime gradimento o di rifiuto fotografico. A ciò contribuiscono: a) fattori antropologico-culturali; b) fattori di tipo inconscio; c) fattori linguistici non verbali; d) Fattori proporzionali.
Fotografia e realtà. La verità fotografica, come altre verità, poggia su basi culturali, religiose, storiche, e sociali, in pratica sulla natura umana. La realtà non è statica, è in continuo movimento, in fase di revisione, mano a mano che nuovi aspetti della vita continuamente vengono alla luce. La fotografia riflette, tuttavia, sia le verità durevoli che quelle mutevoli. Oggi, per quanto coscienti della manipolazione applicabile ad una fotografia in fase di post-produzione, manteniamo spesso la convinzione che, in tutto o in parte, l’immagine sia espressione della vita reale. Solo un’adeguata analisi dell’allineamento della fotografia con la realtà può controbilanciare la primitiva e radicata convinzione della sua autenticità.
Fotografia ed errore. Il termine serendipity descrive la probabilità di vedere i propri errori trasformarsi in un successo non cercato, legato alla casualità. Alla fine del XIX secolo, con lo sviluppo della fotografia amatoriale e l’uso di lastre metalliche per la riproduzione fotografica (cliché), la frequenza degli errori aumenta causando una netta recrudescenza di sfocatura, fantasmi e sdoppiamenti, pellicole velate o danneggiate. Nel 1913, durante il Gran Premio Automobilistico di Francia, Jacques- Henri Lartigue fotografò la Th.
Schneider n.6 di Maurice Croquet in piena velocità. (Fig. 3.4) All’epoca il risultato venne considerato insoddisfacente: la foto appariva sfocata, non centrata sul soggetto primario e deformata. Lartigue confessò che durante lo scatto aveva fatto perno ruotato su se stesso “per riuscire a fotografare una Peugeot che sfrecciava a 180 all’ora”, determinando una ana- morfosi finale. Il flou, il decadrage e la deformazione saranno, circa 40 anni dopo, i nuovi canoni del futurismo, ed oggi, l’effetto sfocato (effetto bokeh) viene spesso ricercato come un espediente tecnico per reportage sportivi, di moda, nella ritrattistica e in servizi sportivi e naturalistici.
Nei primi anni del ‘900, un altro errore fotografico generò il filone “dell’auto-ombromania”, dovuto al posizionamento del fotografo con le spalle al sole. Errore comune del fotografo inesperto, venne raccolto da fotografi evoluti come ricerca e sperimentazione di scatto. Dagli anni Venti in poi, l’ombra diretta o portata, da sempre considerata errore di scatto, venne invece a rivestire aspetti di modernità fotografica con il filone Bauhaus.
Fotografia e inganno. Tra la fine dell’800 e l’inizio del ‘900 la veridicità fotografica fu messa a dura prova dal movimento spiritista. Gli spiritisti, considerandosi in un certo senso scienziati dell’occulto, cercarono di utilizzare la fotografia per catturare evidenze e prove scientifiche. Nel 1861 a Boston, Wiliam Mumler, gioielliere ed incisore, fu il primo fotografo ad annunciare di avere riprodotto l’immagine fotografica di uno spirito, che spesso ricalcava le sembianze di defunti. L’assoluta credenza dell’oggettività e neutralità dell’immagine fotografica indusse a ritenere l’occhio umano in errore, considerandolo incapace di visualizzare immagini visibili invece da un mezzo imparziale. Celebre fu il ritratto fatto da Mumler alla moglie del presidente Lincoln, Mary Todd Lincoln, in cui appariva il fantasma di Abraham. (Fig. 3.5)
L’inganno fotografico assunse aspetti grotteschi con la “fotografia del pensiero”: i due studiosi Hip- polyte Baraduc e Louis Darget, nel 1886, idearono il radiografo portatile, grazie al quale si riteneva possibile catturare l’immagine prodotta dal cervello! Lo strumento si componeva di piccola fodera opaca caricata con una lastra sensibile fissata sulla fronte. (Fig. 3.6) Analogamente, l’effluvista Jacob von Narkieviz nel 1896, fotografò il “fluido vitale” della sua mano, appoggiandola su di una bobina generatrice di corrente su lastra sensibile.
E ancora: un vero e proprio “culto della morte” si venne ad affermare nella nascente America Vittoriana. La fotografia death- bed era per molti aspetti la controparte del dipinto sul letto di morte fino ad allora in voga. La più famosa, e discutibile, di queste fotografie fu la Fading Away (Dissoluzione) di Henry Peach Robinson del 1858. (Fig. 3.7)
La fotografia, ritraendo una giovane morente assistita dalla madre, dalla sorella e dal fidanzato, documentava per la prima volta la realtà dell’agonia e della morte. Lo scalpore fu solo in parte sopito quando si appurò che l’immagine era stata costruita in sala di posa con attori che godevano tutti di ottima salute.
E quindi? L’esperienza dimostra che il cervello non è solo in grado di creare, apprezzare e giudicare le opere d’arte, ma che è strutturato per elaborare e finalizzare tali azioni. Attraverso i secoli gli artisti hanno agito inconsapevolmente come neurologi nel determinare quali costruzioni e composizioni siano in grado di stimolare la mente. Se è vero che esseri umani hanno capacità visive molto simili tra loro, il giudizio estetico contempla ampi margini di soggettività, senza rinunciare tuttavia a quel consenso che universalmente ci “appare bello”… La ricerca continua.
Marco Aguggia. Medico neurologo e fisiatra, dirige l’unità operativa Neurologica e stroke Unit di asti. professore presso la scuola di specializzazione di Neurologia Università di torino membro consiglio direttivo e del gruppo di Studio di neuroestetica della SNO (Società Neuroscienze Ospedaliere)
Sulla Bellezza Anatomica del Corpo
Dalla Preistoria al Mondo Fluttuante
Di Salvatore Spinnato
Parole chiave. arte, corpo umano, anatomia, Occidente, Oriente.
Abstract. Le prime raffigurazioni del corpo umano hanno origini antichissime, risalgono infatti alla preistoria ed erano rappresentate sotto forma di graffiti. Da allora lo sviluppo della rappresentazione del corpo umano è diventato sempre più approfondito, prima nell’antica Grecia e poi nel Rinascimento grazie allo studio dell’anatomia. Se in Occidente la bellezza del corpo umano viene concepita come somma dei canoni estetici greci e della morale cristiana basata sulle forme e sulle proporzioni, al contrario in Oriente l’estetica si esprime nel significato simbolico.
Il corpo umano nelle arti figurative. Le prime rappresentazioni figurative dell’immagine del corpo umano risalgono alla preistoria e compaiono nelle grotte sotto forma di graffiti. La figura maschile è rappresentata attraverso simboli sessuali. La figura dominante è quella femminile, o meglio la concezione anatomica dell’ideale femminile, rappresentata da statuette in pietra chiamate “veneri”, caratterizzate da attributi sessuali pronunciati. (Figura 4.1) Lo sviluppo delle arti figurative in Grecia presuppone delle conoscenze anatomiche tali da fare ritenere che fosse praticata la dissezione. La rappresentazione del corpo umano si concretizza con il Doriforo (figura 4.2) di Policleto (fine del V secolo a.C.) che stabilisce il canone e il metodo proporzionale. Il primo corpo femminile nudo è l’Afrodite di Cnido di Prassitele seguito dalla Venere di Milo (ca. 130-100 a.C.) e dall’Afrodite Callipigia (II secolo a.C.).
L’anatomia umana come disciplina fu riscontrata presso la scuola di Crotone con Alcmeone (V secolo a.C.) che inaugurò la dissezione degli animali. La pratica alla dissezione del corpo umano trovò espressione nella scuola di Alessandria d’Egitto con Erofilo (ca. 325-280 a.C.) ed Erasistrato (ca. 310-250 a.C.), ma per più di 1500 anni la medicina fu influenzata dalle teorie del medico greco Galeno (ca.129- 200 d.C.). Le conoscenze di anatomia si limitarono alle dissezioni praticate sul maiale, che furono arbitrariamente estese all’uomo.
La presenza delle scuole giuridiche e l’esistenza di una scuola chirurgica a Bologna si posero all’origine dello studio diretto del corpo umano. La prima dissezione fu praticata nel 1312 da Mondino de’ Liuzzi (ca. 1270-1326) che introdusse la pratica settoria nell’insegnamento di medicina e scrisse nel 1316 l’Anothomia, il primo trattato di anatomia, seguito dal primo libro di anatomia illustrato pubblicato nel 1521 da Jacopo Berengario da Carpi (1460-1530).
«L’interesse per l’anatomia del corpo umano registrò nel Rinascimento la sua massima espressione. Le ricerche più significative furono condotte da Masaccio, da Pollaiolo e da
Mantegna.»
Studio dell’anatomia. Il riconosciuto innovatore dell’anatomia fu Andrea Vesalio (1514-1564) con la pubblicazione nel 1543 del De humani corporis fabrica. Vesalio esercitò l’atto della dissezione direttamente sul cadavere e inserì immagini di figure umane che rimandano agli ideali classici di bellezza e proporzione, il corpo concepito come una macchina venne “smontato” (figura 4.3). La nuova lettura della “fabbrica del corpo” inaugurò la tradizione dell’iconografia anato- mica rinascimentale. Bartolomeo Eustacchio (1520-1574) eseguì nelle sue Tabulae una serie di incisioni su rame colorate a mano. Girolamo Fabrici d’Acquapendente (ca. 1533- 1619) affermò con le Tabulae Pictae l’importanza dell’uso del colore nelle immagini anatomiche. Charles Etienne (ca. 1504 – ca. 1564) nel De dissectione focalizzò l’attenzione sul piacere generato dalla conoscenza anatomica concepita come un’esperienza estetica. Giulio Casserio (1552-1616) raffigurò le figure anatomiche come se fossero cadaveri “vivi” e Bernard Siegfried Albinus (1697-1770) le rappresentò come scheletri. L’anatomia divenne presto anche rappresentazione pubblica nei teatri anatomici, come in quello di Padova, dove la dissezione divenne spettacolo.
L’interesse per l’anatomia del corpo umano registrò nel Rinascimento la sua massima espressione. Le ricerche più significative furono condotte da Masaccio (1401-1428), da Pollaiolo (1432-1498) e da Mantegna (1431- 1506). La rigida norma imposta dalla Controriforma e la preferenza verso i soggetti sacri orientarono a trasferire sul corpo di Cristo (figura 4.4), sulla figura di San Sebastiano e sulle raffigurazioni di San Bartolomeo le competenze anatomiche acquisite. Che l’anatomia e l’arte siano collegate fra loro fu dimostrato dagli studi di nudo da parte di Albrecht Dürer (1471-1528) attraverso il tema di Adamo ed Eva, e la figura del David di Michelangelo (1475- 1564) e di Donatello (1386-1466). Leonardo da Vinci (1452-1519) fu la più radicale espressione di uno studio diretto dell’anatomia, il primo a “fare la notomia” su cadavere, proponendo con l’Uomo vitruviano un nuovo canone proporzionale di rappresentazione. Le opere di Leonardo e di Michelangelo sono state riprese dal fotografo Robert Mapplethorpe (1946-1989) con gli studi sul nudo maschile (Figura 4.5), un confronto in epoca contemporanea con i modelli rinascimentali cui si ispirava e un richiamo all’ideale della “bellezza anatomica”.
Le dissezioni anatomiche caratterizzano il tema delle “lezioni di anatomia” nella pittura olandese del XVII secolo. Rembrandt (1606- 1669) nella Lezione di anatomia del dottor Deijman recupera l’iconografia del Cristo morto del Mantegna. Accanto alle “lezioni di anatomia” emerge la rappresentazione artistica del corpo umano “spellato”, e lo Scorticato di Lodovico Cardi (1538- 1613) anticipa la ceroplastica anatomica.
La scarsa disponibilità di cadaveri e gli scadenti risultati ottenuti nella preservazione portarono nel XVIII secolo a diffondere a Bologna l’anatomia “plastica”, cioè l’arte di modellare in cera i preparati anatomici. Nella “Stanza della Notomia” dell’Accademia delle Scienze del Museo di Palazzo Poggi sono esposte le opere dei maggiori ceroplasti italiani. La collezione delle cere del Museo “La Specola” di Firenze è unica al mondo per quantità e bellezza. L’eccezionale qualità e la realistica espressività hanno reso questi modelli capolavori delle arti figurative, tanto da essere presentati in mostre contemporanee. L’anatomopatologo Gunther von Hagens ha ripreso l’opera dei ceroplasti con la plastinazione, un procedimento che permette la conservazione dei tessuti. (Figura 4.6)
La figura umana in Oriente. Se la bellezza del corpo umano in Occidente era la somma dei canoni estetici greci e della morale cristiana basata sulle forme e sulle proporzioni, l’Oriente, in particolare il Giappone, esclude massa, proporzioni, tridimensionalità e tratti somatici distintivi. L’estetica giapponese si esprime nel significato simbolico. Il Bello “nascosto” dal simbolo è lo sfondo apparentemente vuoto degli scenari naturali, è ciò che circonda quello che contempliamo. La bellezza femminile diventa l’incarnazione dei desideri. Contrariamente alla tradizione occidentale, il realismo e la differenziazione non erano richiesti.
Le prime rappresentazioni della figura umana nell’arte giapponese risalgono al periodo Jomon (10.000-300 a.C.) con le sculture antropomorfe. Nel periodo Yayoi (V sec. a.C. – III sec. d.C.) compaiono le haniwa, statuette ricavate da cilindri di argilla che caratterizzano il successivo periodo Yamato (250-710 d.C.) in cui si rappresentano sculture di guerrieri. Nei periodi Asuka (552- 645) e Nara (710-794) il buddhismo influenza la rappresentazione della figura umana e compaiono le prime maschere Gigaku. La prima rappresentazione di una forma di estetica giapponese del corpo compare nel periodo Heian (794-1192) con la raffigurazione delle dame di corte, nelle quali risalta l’abbigliamento rispetto al corpo. Nel periodo Kamakura (1192-1333) predomina la rappresentazione dei guardiani dei templi buddhisti e nei guerrieri con kimono risalta ancora il contrasto fra la massa del vestito e la sottile raffinatezza dei tratti del volto.
La rappresentazione del corpo nelle arti figurative giapponesi ha avuto la sua massima espressione nel periodo Edo
(1615-1868) attraverso le stampe shunga, rivalutate all’interno della corrente artistica dell’uki- yo, letteralmente “mondo fluttuante”, nelle quali venivano raffigurate beltà femminili, il mondo del teatro tradizionale, scene erotiche, immagini della natura e della tradizione culturale giapponese. Kitagawa Utamaro (1754-1806) raffigurò nelle sue stampe l’ideale femminile di quel periodo. Il fine non era quello di rappresentare fedelmente le donne, ma quello di appagare le richieste degli acquirenti, che esigevano bellezze che rispettassero i canoni dell’epoca. La rappresentazione anatomica della figura umana nella cultura giapponese segue regole dettate dall’iki, un concetto dell’estetica giapponese che indica un modo di vita e di comportamento legati alla seduzione, una grazia nello stile che caratterizza il modo di essere della geisha, definita icona di femminilità, con un significato di bellezza e sensualità del corpo lontano dai canoni estetici occidentali.
La geisha rappresenta l’incarnazione dell’iki, è una figura dalle linee fluenti e voluttuose, allungate e idealizzate, da una postura arcuata che tende ad appiattire e nascondere le forme. La regola è non mostrare grandi porzioni di pelle, ma alludere alla possibilità di poterle vedere. La bellezza del corpo è enfatizzata dal kimono che viene indossato in modo da scoprire con eleganza la nuca, una parte del corpo considerata sensuale nella cultura giapponese. Hokusai (1760- 1848) sintetizza l’ideale della bellezza femminile nel mondo fluttuante. (Figura 4.7)
“La rappresentazione anatomica della figura umana nella cultura giapponese segue regole dettate dall’iki, un concetto dell’estetica giapponese che indica un modo di vita e di comportamento legati alla seduzione, una grazia nello stile che caratterizza il modo di essere della geisha”
Salvatore Spinnato. Specialista in Neurochirurgia. Neurochirurgo presso a.O. Niguarda Cà Granda, Milano; autore di saggi di neuroscienze, La rappresentazione anatomica dell’immagine del corpo umano 2013; Sulla nuca: da Mondino alla geisha 2016
Riconoscere gli Elementi Iconici
Come il Cervello Interpreta Linee e Forme
di Serena Zaniboni
Parole chiave. Neuroscienze, immagini, codice eidetico, zeki, forme, linee, grouping, masking, neuroestetica.
Abstract. L’articolo esamina, in maniera discorsiva, una classificazione di codici e sottolinguaggi del visivo: sotto una prospettiva di stampo neurocognitivo, procede nell’analisi del contributo del codice eidetico, relativo all’apporto delle linee alla composizione artistica iconica. Come legge tali informazioni il cervello di un osservatore? Uno studio recentemente condotto da zeki, padre della Neuroestetica, pare fornire delle valide risposte tramite indagini sperimentali. Si prosegue la trattazione evidenziando la capacità adattativa della mente di riassemblare, anche in assenza di contributo eidetico, altri elementi plastici in configurazioni già note.
La parola “accostamento”, quando usata come termine intermediario tra un soggetto osservante e un prodotto d’arte iconica pare indicare un semplice avvicinamento fisico del primo al secondo: uno sguardo lanciato, nel puro esercizio delle possibilità percettive che un sistema visivo, esente da patologie o malfunzionamenti che lo riguardino, detiene ed esercita fin dalla nascita individuale. L’interazione quotidiana con le immagini può certamente consistere in questa forma sbadata e distratta di approccio: oppure, in alternativa, l’accostamento può sfociare in pratica piena, essere la prima di una serie di fasi cognitive necessarie per realizzare una reale comunicazione. Infatti, il circuito che caratterizza quest’ultima ha indubbiamente natura, in termini logici, biunivoca: se la composizione iconica raggiunge l’elaboratore centrale e sortisce determinati effetti emozionali, tramite un’innata attività di decodificazione dei suoi sottolinguaggi, è altrettanto vero che lo studio neuroestetico nacque e procede nella direzione di una comprensione scientifica delle complesse dinamiche e connessioni che guidano tale decostruzione, a livello superiore, ai fini di guidare una consapevole, strategica, efficace ed estetica produzione figurativa.
Accostarsi a una fotografia, una tavola illustrata, un dipinto, una scultura, un’opera di street art deve comportare, insomma, una prolungata osservazione, un reale proposito attentivo, un’esegesi profonda e consapevole del figurativo: d’altro canto, un esemplare di buona qualità di ciascuna delle forme summenzionate deve poter efficacemente attirare l’attenzione e tali propositi su di sé.
Ad oggi, tra i tanti studi compiuti in merito a come avvenga il dialogo tra le figure e il loro pubblico, il principale riferimento per una classificazione dei canali del visivo è rappresentato da quello operato dal linguista e semiologo lituano Algirdas Julien Greimas. Secondo Grei mas (Greimas, 1984,3-47), il linguaggio visivo si compone, in prima istanza, di due differenti livelli, assumibili a veri e propri linguaggi, con autonomi ambiti di analisi: un livello detto “figurativo” e un secondo definito “plastico”. Ogni esperienza visiva fornita al sistema percettivo umano può essere considerata secondo questi distinti livelli, che si occupano, rispettivamente, di ritrovare nell’oggetto figurale un corrispondente elemento appartenente alla realtà e immagazzinato nella memoria iconica, e di elaborare la nuova esperienza visiva attraverso un’esegesi complessiva di linee, forme, disposizione spaziale degli elementi e cromatismi. A questo proposito, la dimensione plastica di un’immagine costituisce un immenso serbatoio di informazioni relative al visivo, di possibilità combinatorie fra svariati elementi: per orientarsi e potere ordinare i contenuti d’interesse di una simile, ingente categoria, occorre fare ricorso a tre sottocategorie. Il codice “eidetico” tiene conto delle forme grafiche degli elementi, delle caratteristiche delle linee, dei tipi di disegno o di pittura. Per quanto riguarda invece la distribuzione di tali elementi nello spazio pittorico o, in generale, figurativo, le loro dimensioni, le proporzioni in rapporto assoluto o relativo ad altri oggetti rappresentati, la presenza o l’assenza di richiami simmetrici, si fa riferimento al codice “topologico”. Lo studio dei colori, delle loro caratteristiche, dei loro simbolismi e combinazioni è materia del codice “cromatico”.
In questa sede, si intende focalizzare l’approfondimento sul codice eidetico. Il concetto principale che interessa approfondire diviene, allora, quello di “linea”, cui sono strettamente legati concetti primari, quali quello di “confine”, “forma”, ma anche “movimento”, dal momento che essa, con gli attributi che riesce potenzialmente ad assumere, conferisce dinamicità, a diversi livelli, all’oggetto che costruisce. Gli attributi a cui si è fatto riferimento sono molteplici: una linea può infatti essere diritta oppure mossa, curva, spezzata, chiusa oppure aperta, a seconda che presenti o meno, cioè, un ricongiungimento con se stessa sulla superficie figurativa; può essere appena abbozzata, di segno leggero, oppure marcata, tracciata in maniera pulita o, viceversa, di segno agitato e confuso. Tutte le possibilità elencate possono combinarsi tra loro, o giustapporsi a quelle di altre linee facenti parte della stessa composizione visuale. L’osservatore segue l’andamento e le qualità delle linee, ricevendo input sensoriali pressoché univocamente decifrabili: ma su quali criteri poggia questo carattere di quasi totale universalità interpretativa? Quali sono gli attributi della linea che veicolano un certo significato piuttosto che un altro? In aiuto alla risoluzione di simili interrogativi, intervengono alcune risposte ottenute dalle neuroscienze.
Sotto tale prospettiva, appare di massimo interesse lo studio condotto di Shigihara e Zeki nel corso del biennio 2013-2014, rivelatosi in grado di mettere in discussione un assunto concettuale rimasto indiscusso sino ad allora. Prima, infatti, si riteneva che per il cervello umano esistesse una sola modalità organizzativa, di tipo gerarchico, delle informazioni visive relative al codice eidetico: le configurazioni più complesse sono decostruibili a partire da forme via via sempre più semplici. Queste ultime vengono percepite dalle numerosissime e concentrate cellule OS (acronimo per Orientation-Selective) dell’area V1: lo stimolo viene elaborato, poi, in aree intermedie come V3, V4 e in seguito processato ulteriormente da altre zone della corteccia visiva. Il modello sino a qui considerato vincente suggerisce, dunque, una gerarchia elaborativa che parte da V1 e da lì si estende e perfeziona, assumendo, con ciò, che ogni stadio di processazione sia dipendente dal precedente e determinante per il successivo.
A seguito, tuttavia, degli studi di A. Shigihara e Zeki, si è considerata la possibilità di verificare, grazie a nuove strumentazioni, la veridicità di tale ipotesi, proponendone una alternativa. Quest’ultima si regge sul concetto di “strategia parallela”, dove l’attributo si pone in antitesi con l’idea gerarchica sopra descritta. La nuova ipotesi si innesta sulla possibilità che forme geometriche costituite da identici segmenti di linea appartengano a separate categorie, processate da sistemi diversi o in grado di lavorare parallelamente, svincolati dalla “reazione a catena” implicita nel modello gerarchico. Per avviare la nuova linea di studio, è stato condotto un esperimento psicofisico, tramite una tecnica denominata “backward masking”. Essa consiste nel proporre due stimoli in rapida successione, dunque separati cronologicamente da un brevissimo intervallo: il primo costituisce l’input “target”, il secondo è il “mask”, la maschera, una deviazione rispetto al target. Il compito richiesto al soggetto sperimentale coincide con il suo tentativo di individuare quale dei due sia il target e quale una sua variazione: l’assolvimento della richiesta si rivela tanto più complesso quanto minore è il tempo intercorrente tra l’osservazione della prima e della seconda opzione.
In fase di interpretazione dei risultati dello studio, possiamo affermare che la tecnica di masking rappresenta uno strumento per verificare ipotesi di rappresentazione eidetica parallea dei processi cognitivi di tipo visivo. Linee e angoli sono percepiti simultaneamente, il che rafforza l’ipotesi di una processazione parallela ad opera del medesimo sistema: costituiscono, dunque, una famiglia di forme. I rombi, poi, più resistenti al masking di linee e di angoli ma in grado di mascherarli, costituiscono un’altra famiglia, separata, di forme. Evitando, qui, di affrontare il tema del segno iconico in termini retorici o semiotici, possiamo asserire che i tratti eidetici siano elementi primari nella comunicazione figurativa e che la loro percezione avvenga in maniera immediata, differenziata e autonoma per forme aperte e per forme chiuse, poligonali: a questa ipotesi pare, infatti, rimandarci lo studio di Zeki sintetizzato nelle righe sopra.
È molto interessante, oltre che opportuno in questa sede, considerare come l’intuizione dei contorni delle figure presenti nel piano figurativo possa verificarsi, da parte del cervello umano, anche in assenza di linee che ne delimitino i contorni. Celebre, in questo senso, l’esempio gestàltico del cane dalmata, emblematico di un principio fatto coincidere da Vilayanur Ramachandran con una delle nove leggi per un’estetica dell’arte figurativa. Battezzato grouping o “raggruppamento”, fu elaborato per l’appunto dagli psicologi della Gestalt e si può affermare che il principio che lo governa coincida con la tendenza ad accorpare elementi iconici dalle infomazioni che provengono dal visivo: l’autore distingue i casi in cui esse riguardino l’impianto cromatico o quello eidetico.
Si consideri il primo caso, che concerne composizioni caratterizzate da macchie di un solo colore o di diverse cromie. Il dalmata, ad esempio, riporta un meccanismo di grouping che si potrebbe qui definire, date le ipotesi di Ramachandran, per monocromatismo: contraddistinto da totale assenza di contributo eidetico e da una distribuzione disomogenea di macchie nere su sfondo bianco, gli elementi figurativi che vi possono essere distinti sono privati di linee che esplicitino i loro confini dallo sfondo. Eppure, è possibile per l’osservatore umano azionare una modalità cognitiva che permetta di riconoscervi la figura di un cane intento ad annusare il terreno: infatti, il cervello “incolla”, raggruppa assieme alcune macchie e segue la configurazione delle stesse per formare un oggetto singolo, riconducibile alle fattezze dell’animale depositate in memoria sensoriale. Alla stessa maniera, è possibile considerare le opere impressioniste come un esempio di grouping policromatico, considerando l’attitudine della mente ad accorpare le pennellate di tinte di un medesimo colore e, di conseguenza, a distinguerle da tutte quelle differenti. Nel caso della corrente artistica ottocentesca menzionata, questo è più che mai verificato e la distinzione degli elementi facenti parte del complesso figurale è affidata alla strategia di grouping policromatico, tanto più efficace quanto aumenta il raggio della distanza tra l’occhio e il piano pittorico.
È curioso, in chiusura di trattazione, osservare come le teorie appena descritte riportino alle intuizioni del genio del Da Vinci riguardo a quell’elemento iconico che fu battezzato “macchia leonardiana”: ognuno di noi l’ha sperimentata, anche nella semplice osservazione di linee e macchie sui muri, capaci di formare configurazioni che portano la memoria a riconoscervi elementi già noti, per isomorfismo. Così facendo, anticipò anche il formalista russo Slovskij, che ravvisò in questi unidentified objects un’interessante novità, nella visione del reale come “pacchetto” già noto: non stupisce, dal momento che la tendenza neurocognitiva della mente umana a riportare l’informe a una forma nota è di tipo evolutivo e precede ogni teorizzazione.
Serena Zaniboni. Laureata triennale in lettere Moderne presso l’Università di bologna e magistrale in pubblicità, Editoria e creatività d’impresa presso l’Università di Modena e Reggio Emilia, è ad oggi dottoranda in Scienze Umanistiche presso l’Università di Modena e Reggio Emilia. l’ambito entro cui sviluppa i suoi studi è di tipo neuroestetico e il progetto di ricerca intende esaminare le modalità neuroscientifiche con cui il cervello umano comprende le narrazioni per immagini, come esse vengono decodificate, quali i binari universali di interpretazione dei messaggi del linguaggio visivo e di gradimento estetico, quali, invece, le differenze culturali e/o interpersonali.
Il Bello Musicale
di Enrico Grassi e Pasquale Palumbo
Parole chiave. Neuroscienze, musica, arte, cervello.
Abstract. Gli esseri umani possiedono sofisticate abilità nella decodifica dell’informazione musicale che permettono loro la sua comprensione e il suo godimento. L’articolo ripercorre gli studi compiuti per indagare se ciò che viene definito “bello” in ambito musicale dipende da parametri oggettivi o da fattori soggettivi.
Un’abilità naturale. Ognuno di noi, anche la persona che non abbia ricevuto una sola ora di educazione musicale, mostra sofisticate abilità nella decodifica dell’informazione musicale che ne permettono l’acquisizione e la conoscenza di una specifica sintassi e la processazione della stessa informazione al fine della sua comprensione e del suo godimento.
Il cervello dei neonati, infatti, è già predisposto a elaborare una struttura musicale. Una dote innata come ha dimostrato il lavoro che Daniela Perani della Divisione di Neuroscienze dell’Istituto Scientifico San Raffaele di Milano pubblicato su PNAS. Attraverso l’utilizzo della risonanza magnetica funzionale (FMRI), ha esaminato l’attività del cervello in neonati di 24-48 ore di vita ai quali sono stati fatti ascoltare brani di Mozart, Schumann, Schubert e Chopin, scoprendo che era già presente (come nell’adulto) una predominanza emisferica destra. I risultati di questo studio mostrano cioè che già nelle prime ore di vita si attivano nell’emisfero destro gli stessi sistemi neurali presenti e attivati negli adulti esposti da tempo alla musica (fig 6.1).
Questo significa che il cervello si è evoluto in modo tale da possedere sin dalla nascita quelle strutture necessarie all’elaborazione di funzioni complesse come la musica. Senza questa evoluzione non avremmo percepito, compreso e nemmeno prodotto quei capolavori della musica che rappresentano una delle massime manifestazioni della creatività del cervello umano. Nella seconda parte dell’esperimento si sottoponevano poi i bambini all’ascolto degli stessi estratti di musica resi dissonanti o alterati nella struttura. In questo caso si aveva la coattivazione anche dell’emisfero sinistra e in particolar modo della corteccia frontale inferiore, necessaria per elaborare le dissonanze (fig. 6.2). Quindi, la comprensione della musica, a livello cerebrale, non è il risultato di una lunga esposizione ad essa, ma è semplicemente dovuta ad una predisposizione neurobiologica, che si è evoluta con l’uomo e che ha permesso la produzione e la comprensione della musica.
Possiamo concludere, quindi, che la musicalità è un’abilità naturale del cervello umano.
Indagini sul “bello” musicale. Nel pensiero Platonico la musica ha il potere di suscitare emozioni nell’ascoltatore ed è espressiva in virtù del fatto che essa suscita tali emozioni in chi ascolta. Questa teoria, che potremmo definire teoria eccitazionistica ha avuto una forte influenza nella storia del pensiero musicale restando egemone fino al XVIII secolo.
Per primo Schopenhauer, nel Mondo come volontà e rappresentazione (1819) propose una spiegazione alternativa: “non si tratta più di pensare che la dinamica espressiva della musica sia riconducibile alle emozioni risvegliate dall’ascolto, ma di riconoscere che le emozioni sono nella musica.” Bisognerà però arrivare in quel laboratorio culturale interdisciplinare che fu la Vienna della seconda metà dell’800 perché vengano gettate le basi moderne del dibattito sull’estetica musicale. È stato Eduard Hanslick nel 1854 con il lavoro Il bello musicale che ha affrontato in termini nuovi il problema dell’estetica musicale. Hanslick ha negato che il valore estetico della musica pura, vale a dire senza contenuto rappresentativo extramusicale, abbia qualcosa a che fare con le emozioni. È la pura forma, invece, ovvero la costruzione sonora e le sue dinamiche strutturali che rappresentano il vero contenuto della musica.
La musica assoluta non ha la facoltà di esibire emozioni, di esprimere o rappresentare sentimenti determinati, “perché i suoni non solo sono ciò attraverso cui la musica si esprime, ma anche la sola cosa espressa”. Il bello musicale, concluse Hanslick “è un bello specificamente musicale” che “consiste unicamente nei suoni e nella loro artistica combinazione”. Con Hanslick s’inaugura di fatto il Formalismo musicale.
Tutto il suo discorso è animato da uno spirito di obbiettività scientifica, da un atteggiamento analitico piuttosto che sistematico: “l’indagine del bello se non vuol diventare affatto illusoria, dovrà avvicinarsi al metodo delle scienze naturali…”, e ancora: “l’impulso verso una conoscenza il più possibile obbiettiva delle cose, che nella nostra epoca agita tutti i campi del sapere, deve necessariamente toccare anche l’indagine del bello” .
Anticipando le posizioni dei musicisti del Novecento, che rivendicano i “diritti della musica di non essere altro che se stessa, libera da intrusioni storiche, psicologiche, morali, letterarie”, Hanslick affermava: “con ciò intendiamo un bello che, senza dipendere e senza aver bisogno di alcun contenuto esteriore, consista unicamente nei suoni e nella loro artistica connessione. Le ingegnose combinazioni di suoni belli, il loro concordare e opporsi, il loro sfuggirsi e raggiungersi, il loro crescere e morire, questo è ciò che in libere forme si presenta all’intuizione del nostro spirito e che piace come bello”.
La musica cioè ha una sua razionalità intrinseca, basata su principi innati iscritti nella nostra natura; diremmo oggi nella struttura del nostro sistema nervoso centrale.
Nel dibattito musicale della Vienna dell’epoca ha un ruolo importante anche un medico, il grande chirurgo Theodor Billroth, l’inventore di una serie impressionante di procedure chirurgiche, tra cui la prima esofagectomia (1871), la prima laringectomia (1873), e soprattutto la prima gastrectomia (1881) per cancro gastrico.
Billroth era anche un talentuoso pianista e violinista dilettante, amico stretto di Brahms, il quale spesso mandava al medico i suoi manoscritti prima della pubblicazione e altrettanto spesso li suonava insieme a lui in ensemble cameristici.
Billroth scrisse anche un saggio, pubblicato postumo, dal titolo Wer ist mu- sikalisch? (Chi è musicale?). Questo lavoro rappresenta uno dei primi tentativi di applicare il metodo scientifico allo studio della musica. Nel saggio, Billroth identifica e descrive pioneristicamente diversi tipi di quella che oggi definiremmo “amusia” (chiamandole sordità per i toni, sordità per i ritmi, e sordità per le armonie) individuando così alcune abilità cognitive coinvolte nella percezione musicale. Nei diversi capitoli di questo testo, Billroth esamina il ritmo analizzato come elemento essenziale sia della musicalità che del nostro organismo, poi i rapporti tra altezza del suono, durata, intensità e il nostro organismo e ancora l’effetto della musica sull’uomo.
Wer ist musikalisch? “La risposta a questa domanda, apparentemente semplice – scrive Billroth – è invece assai difficile e complicata perché noi definiamo musica sia il suono del tamburo, sia una composizione per grande orchestra e coro. Oltretutto, chi tenta di dare una risposta a questa domanda deve ritenersi musicale e quindi sarà costretto nel corso della trattazione anche a parlare si sé stesso.”
“Chi è musicale?” si chiede Billroth, colui che possiede sensibilità e talento ritmico, oppure chi ha prevalentemente un talento melodico, oppure ancora colui che mostra di avere raggiunto un livello tecnico di assoluta eccellenza, o chi ha talento drammatico?
Molti decenni dopo Hanslick, con l’intenzione di preservare l’autonomia formale della musica dall’effetto psicologico che essa può esercitare, Strawinskij dirà: “considero la musica, per sua essenza impotente a esprimere alcunchè: un sentimento, un atteggiamento, uno stato psicologico, un fenomeno della natura, ecc. L’espressione non è mai stata la proprietà immanente della musica”. E su questa scia, per citarne solo alcuni, anche Lèvi-Strauss, Varèse, Boulez, Schonberg, Webern. Questa posizione ha posto le basi per la teoria cognitivista della musica; uno dei suoi maggiori rappresentanti, Peter Kivy, spiega il significato di questa definizione: “cognitiva perché l’espressività della musica risiede nella nostra consapevolezza delle emozioni e non nel nostro provarle”.
La musica che esprime tristezza non produce in noi l’affezione nel senso che ci fa sentire tristi, ma nel senso che ci trasmette (evoca in noi) il concetto di tristezza. Ci rendiamo conto che la musica esprime tristezza. Quindi la risposta estetica primaria è di tipo cognitivo: un riconoscimento del contenuto emotivo che è presente in essa.
Per dirla con Malcom Budd, un altro filosofo della musica, le descrizioni emotive della musica devono essere concepite essenzialmente come descrizioni letterali, ritenendo che i termini emotivi che applichiamo ad essa ci informano di proprietà espressive incarnate dalla musica stessa.
Tutta una serie di problemi in parte nuovi per l’estetica musicale che sorgono dalla riflessione di Eduard Hanslick. La questione più importante, lasciata aperta e non del tutto risolta, riguarda il valore della struttura logico-grammaticale della musica; se cioè il complesso di regole che reggono la costruzione musicale sono convenzionali, prodotto storico, soggetto a mutamenti nella storia, o se possiedono una loro natura indipendente dai fattori storici, cioè una loro eterna ed intrinseca razionalità, diremmo noi oggi, fondata su basi neurobiologiche.
Anche l’esperienza estetica è soggetta alle leggi che regolano le attività cerebrali e quindi l’arte può essere considerata come un’estensione della funzione del cervello.
Percezione del bello. Nel 2011 il prof. Semir Zeki, uno dei padri fondatori della neuroestetica, in una ricerca condotta presso il Wellcome Laboratory of Neurobiology dell’University College di Londra ha dimostrato che il nostro cervello dedica alla bellezza una specifica area che si attiva quando sperimentiamo il piacere di un’opera d’arte o un brano musicale. In questo studio, 21 soggetti di culture ed etnie diverse hanno valutato una serie di dipinti e di brani musicali classificandoli come belli, brutti o indifferenti mentre l’attività cerebrale veniva controllata con una risonanza magnetica funzionale (fMRI). Zeki ha così scoperto che quando ascoltavano un brano o visualizzavano un quadro classificati come belli si attivava maggiormente un’area della corteccia orbito-frontale mediale dimostrando che la stessa area del cervello si attiva sia per la bellezza visiva sia per quella uditiva negli stessi soggetti. Ciò implica che nel nostro cervello la bellezza esiste come concetto astratto (fig. 6.3).
Nell’elaborazione neurale del suono musicale si verifica anche l’unione di due principi chiave non solo della filosofia antica ma anche del mantenimento della specie, quelli della bellezza e del piacere che da essa ne deriva. Leggiamo ora la definizione della musica di Jean Jacques Rousseau nell’En- cyclopèdie: “La musica […] è l’arte di disporre e di condurre i suoni in modo tale che dallo loro consonanza, dalla loro successione e dalle loro durate relative abbiano origine sensazioni gradevoli”.
Fra le aree cerebrali che si attivano a seguito di un brano musicale una struttura centrale è rappresentata dal cosiddetto reward circuit, cioè dal circuito della ricompensa o del piacere, un circuito filogeneticamente antichissimo su base dopaminergica che si attiva per stimoli edonicamente rilevanti molto diversi fra loro. È una risposta che accomuna stimoli diversissimi come una pralina di cioccolato che si scioglie in bocca, una sniffata di cocaina, un rapporto sessuale, una vincita di soldi, la visione di un’opera di Michelangelo e per l’appunto l’ascolto di una sonata di Mozart.
È un circuito che origina dall’Area Tegmentale Ventrale (VTA) mesencefalica e si proietta tramite lo striato ventrale (nucleo accumbens) fino alla corteccia orbitofrontale (OCF) dopo aver comunicato l’informazione ad altre strutture fondamentali del cervello limbico come l’amigdala e l’ipocampo.
Nel 2001 il gruppo di Montreal di Robert J. Zatorre dimostrò per la prima volta, con un articolo su PNAS, l’attivazione del reward circuit mesencefalico a seguito dell’ascolto di un brano musicale. Lo stesso gruppo leader nella ricerca neuromusicale dimostrò 10 anni dopo con un lavoro su Nature che anche nella risposta neurale al piacere musicale (come negli altri tipi di piacere meno astratti come cibo, sesso o droga), c’era una fase di piacere appetitivo, “wanting”, legato all’aspettativa che l’ascolto della musica innescava, e una fase consumatoria “liking” legata al consumo edonistico del brano, che si manifestava fisicamente in quello che gli autori inglesi chiamano chills, i francesi frissons o orgasmi cutanei, cioè gli indefinibili, impagabili brividi nella schiena che vi invadono all’ascolto ad esempio dell’Adagietto della V sinfonia di Mahler (fig. 6.4).
In questo intrecciarsi di piacere e bellezza, una delle questioni più dibattute in estetica è se la bellezza possa essere definita da parametri oggettivi o se dipenda interamente da fattori soggettivi. Nonostante i criteri soggettivi e culturali giochino un ruolo importante nelle esperienze estetiche di ciascuno, oggi sappiamo che esistono dei principi specifici con una base biologica, delle architetture neurali che possono facilitare e mediare la percezione del bello.
Enrico Grassi. specialista in Neurologia. Neurologo presso U.O di Neurologia del Nuovo Ospedale di prato. coordinatore nazionale del gruppo di Ricerca in Neuroestetica della SNO.
Pasquale Palumbo. direttore dell’U.O. Neurologia dell’Ospedale di prato.
La Bellezza Rigorosa
Il Fascino Estetico tra Evoluzione della Specie e Cultura
di Stefano Calabrese
Parole chiave. Bellezza, neuroestetica, cervello, cultura, evoluzione della specie.
Abstract. L’articolo, partendo dalle teorie sul potere del fascino estetico, ripercorre nella prima parte del testo il ruolo che la bellezza ha avuto in campo evolutivo nelle diverse specie. Nella seconda parte, invece, indaga i recettori deputati alla decodifica della bellezza presenti nel cervello umano.
Il potere del fascino estetico. Come è strana la bellezza, vista con gli occhi di Darwin e dei suoi molteplici seguaci. Essa è innanzitutto una promessa, un indicatore di fitness e di vigore fisico: essere belli significa essere sani, performanti, adattivi e più garanti della prosecuzione della specie. In questo senso la bellezza era per Darwin un attributo necessariamente maschile, mentre le femmine si limiterebbero a reagire ai segnali estetici del maschio e a decodificarne la complessa, seducente semiotica. Quale case-study eleggere al proposito? Il mondo ornitologico: lì si trova la forma originaria della bellezza e modi di corteggiamento “estetici” che i mammiferi e la specie umana non hanno ereditato, deviando verso un modello “muscolare” le strategie seduttive degli uccelli (Mithen 2007, 42 ss.). Ad essere precisi, nell’ambito più generale del darwinismo le teorie sul potere del fascino estetico sono tre.
La prima teoria di Amotz Zahavi sostiene che la bellezza – si pensi ad esempio alle possenti penne timoniere del pavone – è un handicap, e proprio per questo costituisce una specie di fitness test, in quanto la sopportazione di tale handicap è in sé e per sé una prova di forte costituzione fisica, tale da garantire la sopravvivenza della specie. Gli ornamenti sono segni affidabili (reliable) di fitness proprio in quanto esigono dai loro detentori elevati costi fisici. Secondo questa teoria, dunque, il gusto estetico, il piacere e la bellezza sono tarati sull’idea del dispendio, dell’inutile, del surplus – ciò che spiega in effetti i fenomeni di spesa cospicua nel corteggiamento anche da parte dell’uomo (anelli di fidanzamento, monili, ecc.) tanto quanto le nozioni socio-antropologiche care a Bataille di dépense e potlatch. Insomma, la bellezza sarebbe una forma di “selezione di segnale” che si ricongiunge per via indiretta alla selezione naturale, come indica anche il fatto che la capigliatura dell’uomo non abbia un limite di crescita pre-programmato, contrariamente a tutte le altre forme pilifere: si tratta infatti di un ornamento “strampalato” che costituisce una “réclame” per la fitness del suo possessore, il quale dispone di tempo a sufficienza per farne un ornamento (Zahavi, Zahavi 1997, 24 ss.).
La seconda teoria vede nella bellezza un indicatore di competenza immunitaria, per cui animali con ornamenti sfarzosi danno prova di una particolare resistenza ai parassiti e quindi di buone capacità di sopravvivenza. Riguardo al corpo umano, tale teoria si avvale di due prove: la purezza della pelle (acne e lesioni epidermiche sono indicatori di malattie organiche) e la simmetria corporea (le asimmetrie nel viso o nel corpo sono indicatori di disturbi dello sviluppo o di malattie gravi), due attributi in grado di spiegare perchè la simmetria si sia rivelata nella storia dell’estetica una delle principali candidate a incarnare l’idea stessa di bellezza (Menninghaus 2013, 128).
La terza teoria vede nella bellezza un indicatore di fitness, là dove ad esempio nella donna sono indicatori di fertilità due elementi: un particolare rapporto vita-fianchi e lo schema del fanciullo nel viso femminile (la cosiddetta facial babyishness). Quest’ultimo è un indicatore di giovinezza nelle donne e quindi di gradi di fertilità elevati, comprendente parti alte del viso slanciate, mascelle delicate, bocca tonda, occhi grandi, naso piccolo. Anche la pelle nuda crea nell’uomo un’esperienza aptica del tutto nuova, perchè rispetto agli altri mammiferi consente di aumentare la superficie di contatto (Menninghaus 2014, 30).
Bellezza ed evoluzione della specie. Ora, un neodarwinista doc come Winfried Menninghaus si è di recente occupato di questi problemi schierandosi esplicitamente per questa terza ipotesi, non senza spiegare in termini adattivi l’attuale ipervalorizzazione della componente estetica. Contrariamente a quanto accadeva nelle comunità organiche, dove tutti sapevano tutto di tutti, nelle condizioni odierne di nomadismo spaziale, flussi migratori, contatti sociali plurimi e “a tempo determinato” la first impression data dall’aspetto fisico per Menninghaus sarebbe divenuta essenziale per il riconoscimento degli attributi di una personalità; come se non bastasse, il declino dei grandi sistemi metafisici avrebbe altresì consolidato la tendenza ad affidarsi a fornitori di senso settoriali (la psicoterapia, la bioalimentazione, ecc.) e soprattutto a delegare all’estetica antichi bisogni di legittimazione dell’esistenza (Steen 2006, 57 ss.). In un’ottica darwinista, il sense of beauty dell’uomo sarebbe dunque un “vestigio evolutivo”, la traccia delle relazioni arcaiche tra i sessi, quando la scelta estetica aveva ancora il potere di dire la sua nel registro evolutivo; al contrario, per Freud il divorzio tipico della civiltà europea tra desiderio sessuale e percezione estetica avrebbe comportato una trasformazione di quest’ultima – delocalizzata dagli organi genitali all’intero corpo, e quindi all’immagine complessiva di un corpo coperto di abiti e ornamenti – in vettore di sublimazione. Pur condividendo la tesi di Darwin circa l’origine sessuale dell’impulso estetico, Freud sottolineava il carattere produttivo, favorevole al progresso della cultura e della civiltà, di uno spostamento dell’estetica dal genitale all’epidermico, una volta che fosse stata «inibita nella meta» e indirizzata altrove. L’autonomia del bello, il suo carattere kantianamente disinteressato – per Menninghaus è evidente il debito di Freud con l’estetica di Kant, mentre Darwin si sarebbe rifatto a Burke e Hume – avrebbero operato un transfert dal successo riproduttivo alla costituzione di una “civiltà più elevata” (Menninghaus 2014, 74). Da un lato l’estetica kantiana, costruita su un esorcismo del sessuale e sulla valorizzazione della regolarità; dall’altro quella francese e inglese, propensa a valorizzare l’impatto “fisico” della bellezza e a sostenere come i valori estetici si attivino attraverso la forzatura di caratteristiche privilegiate quali la novità, la rarità, l’esagerazione.
Nella prospettiva di questo articolo, orientato a comprendere il passaggio dal mito originario delle sirene-uccello a quello adulterato e tardivo delle sirene-pesce, va sottolineato come le armi dell’estetica per Darwin e i neodarwinisti siano fondamentali per gli insetti e gli uccelli, mentre al confronto i mammiferi appaiono assai rozzi, fondandosi sulla law of battle, la legge del più forte: infatti la selezione del partner femminile, che non ha alcun diritto di scelta, per i mammiferi avviene spesso dopo uno scontro fisico tra due o più maschi contendenti. Se l’uomo esclude in origine la bellezza dal proprio corredo strumentale e si affida invece alla bellicosità, in una prospettiva bioculturalista è vero che più la civiltà si eleva, più il corteggiamento dell’uomo ritorna all’arte ornitologica e al valore originario della bellezza: il canto vale più di un semplice rumore, la simmetria, il ritmo e la ripetizione più delle asimmetrie (Mithen 2007, 118).
A riprova di ciò starebbe il fatto che la nudità della pelle è il primo ornamento del corpo dell’uomo rispetto ai mammiferi, nonostante gli innegabili svantaggi pratici (minore protezione termica e batterica). L’uomo evolve in modo opposto alla scimmia: gli organi sessuali delle scimmie sono glabri e il loro corpo iper-pelvico, mentre l’uomo con la sua pelle glabra in qualche modo estende a tutto il corpo la zona erogena, meno appunto gli organi sessuali, che nell’uomo sono pelvici (Darwin 1977, 285-291). La nudità, dice Menninghaus, costituisce un tratto altamente improbabile e quindi un valore estetico per l’uomo, come sosteneva non per caso l’estetica classica: la pelle nuda non è dunque un grado zero dell’estetica bensì, au contraire, un “abbigliamento” selezionato nel corso di migliaia di generazioni, equivalente, ma per detractio, al piumaggio policromo degli uccelli (Menninghaus 2014, 58). I neodarwinisti doc fanno notare oggi che gli ornamenti corporei dell’uomo (maquillage, collane di conchiglie o denti di animali, uso dell’ocra per dipingere la pelle) appaiono già 150.000 anni fa, mentre le prime tracce figurative o i primi oggetti decorativi risalgono a non prima di 40.000 anni fa. Ciò ci porta a tre conclusioni.
- La bellezza riveste originariamen- te un ruolo bio-sessuale.
- La pittura nasce storicamente dal maquillage, e non viceversa.
- Il canto, le vocalizzazioni ritmiche e melodiche sono la prima forma d’arte della cultura umana, e a tale proposito va notato come i mammiferi non ricorrano per Darwin al canto (song), ma solo al richiamo (call): agli scimpanzè mancano del tutto organi fonoarticolatori che consentano loro le straordinarie prestazioni canore effettuate invece sia dall’uomo che dagli uccelli (prestazioni spesso geneticamente limitate agli uccelli maschi, obbligati ad attrarre con il canto le femmine).
Ecco: il canto come attrattore sessuale, mito fondatore della bellezza. L’Origine, l’omphàlos di tutta l’estetica nelle arti coreutiche (ad es. le danze rituali del pavone) e canore (ad es. il canto del merlo maschio) rivela tra l’altro una indistinzione tra emittente e destinatario o comunque una partecipazione attiva del secondo in un modo che solo l’estetica digitale di questi anni ha saputo nuovamente valorizzare
Cervello e bellezza. Se la bellezza ha questo enorme rilievo per l’evoluzione di tutte le specie, sarebbe ragionevole pensare che l’uomo abbia sviluppato dei recettori particolarmente deputati alla decodifica della bellezza, e che vi siano regioni neurali che presiedono solo a questa funzione. Da questa domanda è partito Semir Zeki, il fondatore della neuroestetica, per condurre una serie di esperimenti sia sulla percezione della bellezza visiva che su quella musicale, nella certezza che la significant form della bellezza possieda una natura brain-based. In particolare, Zeki ha previsto il monitoraggio dell’attività cerebrale in fase di osservazione di un testo artistico – cioè esteticamente artefatto – allo scopo di verificare se un’unica area del cervello sia deputata a una valutazione sinestetica di bellezza, oppure se si attivino aree diverse del cervello, in corrispondenza di input di genere differente (visivi e musicali), di fronte a qualcosa di dichiaratamente bello. In questo Zeki fa proprie le teorie che Edmund Burke espresse nella sua celebre Phylosophical Enquiry into the Origin of Our Ideas of the Sublime and Beautiful, in cui l’esperienza estetica veniva identificata in una sorta di “invenzione” illusionistica dei sensi del soggetto. Se per Burke è il destinatario, non il destinatore, che vede in qualcosa il bello, analogamente per Zeki va formulata l’ipotesi che esista una sola zona, o comunque un unico insieme di aree cerebrali, in grado di elaborare i vari gradi di bellezza artistica, veicolata tramite codici visivi e acustici.
In un test specifico Zeki ha valutato in fMRI (Zeki et al. 2011) l’attività cerebrale di 21 soggetti (età media 27,5 anni, di cui 9 maschi e 12 femmine, destrimani, dotati di normali condizioni di percezione visivo-acustica e psicomotorie, appartenenti a più gruppi multiculturali), sottoposti a stimoli figurativi e musicali. In particolare, 30 soggetti sono stati sottoposti, dapprima, a una sessione di prova, orientata alla selezione di alcuni tra 60 immagini e 60 brani musicali. Ogni stimolo veniva proposto per 16 secondi, con intervallo di 2 secondi tra l’uno e l’altro, e a ciascuno doveva essere assegnato dal soggetto testato un punteggio da 1 a 9 della scala Likert: considerando le classi valutative 1-3 come “brutto”, 4-6 come “indifferente”, 7-9 come “bello”, sono in seguito stati scelti 10 esempi di ciascuna classe, per un totale di 30 casi pittorici e 30 casi musicali. Il campione di esemplari artistici da sottoporre ai 21 soggetti sperimentali era quindi dato da 60 input totali, equamente suddivisi per le due tipologie sensoriali. La sessione di ricerca iniziava con la presentazione all’individuo di uno schermo piatto, dotato di un punto centrale su sfondo nero, per circa 20 secondi; poi si proponeva la sequenza di stimoli, ciascuno della durata di 16 secondi e separato da quello successivo da un intervallo di un secondo; nel caso dello stimolo acustico, sullo schermo appariva lo sfondo nero con il punto luminoso centrale, che al soggetto veniva richiesto di fissare; al termine di ogni composizione, aveva sino a 5 secondi di tempo per valutare la qualità di ciò che aveva appena visto o ascoltato, utilizzando dei tasti per stabilire il livello su scala Likert; conclusa la presentazione dei 60 stimoli, suddivisi in 5 sessioni da 12, riappariva lo schermo nero per i finali 5 secondi. I risultati ottenuti hanno evidenziato una marcata attivazione – nel caso di stimoli acustici o visivi prodotti da testi canonici e assai noti dell’area conosciuta con l’acronimo MOFC, Medial OrbitoFrontal Cortex (corteccia orbitofrontale mediale), una zona ristretta e specifica della corteccia prefrontale, una più ampia area in grado di ricevere proiezioni dal nucleo mediodorsale del talamo e che si trova davanti alla corteccia motoria e premotoria del lobo frontale. La corteccia prefrontale è suddivisa in tre microaree, una delle quali è appunto la corteccia orbitofrontale mediale, inclusiva di una serie di aree “architettoniche”, come quella di Brodmann, deputata a processare gli stimoli visivi, olfattivi e somatosensoriali, e che ha un ruolo primario nell’elaborazione di sensazioni di premiazione, gratificazione e piacere, oltre che nella formulazione di giudizio valutativo. Ora, nel test Zeki ha verificato che la corteccia mediorbitofrontale è stata l’unica area corticale in grado di attivarsi nel sistema cognitivo di tutti i soggetti, in presenza di entrambi gli input artistici presentati, per cui è deducibile che non solo la bellezza fa capo a un’unica area del cervello, ma che bellezza figurativa e bellezza musicale coincidono da un punto di vista neurale. Zeki afferma altresì che, da un lato, più si percepisce un testo come bello, più è intensa l’attivazione della mOFC; dall’altro, che la percezione del brutto ha prodotto una intensa attività nell’amigdala sinistra e destra, nel giro fusiforme e occipitale inferiore, soprattutto nel caso degli input visivi. Insomma, se resta accertata la correlazione tra l’esperienza estetica della bellezza e l’attività della corteccia orbitofrontale mediale, in particolare si sottolinea come l’esperienza della valutazione neuroestetica sia visiva che musicale trovi il proprio centro elaborativo nell’area A1 della MOFC. Come diceva Burke, è il soggetto che fa la bellezza e la bruttezza, e lo fa in aree cerebrali del tutto diverse.
Il ruolo della cultura. Naturalmente, ciò che appare deficitario in Zeki è proprio il concetto di bellezza: egli decide di non porsi il problema e utilizza nei suoi test modelli canonici e affermati di pittura o di esecuzioni musicali: insomma, Mozart è bello perchè è Mozart, Caravaggio è bello perchè è Caravaggio. Da questa tautologia esce il neuroscienziato di origini indiane Ramachandran, che in un capitolo del suo libro The Tell-Tale Brain (Ramachandran 2011, 156-177) teorizza il fatto che l’arte e più in generale l’attività di produzione estetica comportino alcuni requisiti permanenti, e che tali requisiti rispondano alle caratteristiche funzionali del cervello. Non posso qui dilungarmi troppo su questo aspetto della trattazione di Ramachandran, per cui è sufficiente elencare in estrema sintesi i nove principi che il nostro cervello tende a considerare belli: (1) Grouping (2); Peak shift o “spostamento dell’apice” (3); Contrast (4); Isolation (5); Peekaboo o “problem solving percettivo”(6); Abhorrence of coincidences o “rifiuto della casualità” (7); Orderliness (8); Symmetry (9); Metaphor. Tutto ciò che ci aiuta a identificare qualcosa come una figura su uno sfondo (attraverso l’agglutinazione degli elementi percepiti e il loro isolamento da un contesto secondario, così come attraverso elementi rari nella realtà della natura quali l’ordine, la simmetria, la predittività, il contrasto) o ad attribuirvi un significato per analogia a qualcosa d’altro (come fanno le metafore), viene da noi percepito come bello. Ci conferma nel nostro sistema di attese (qui il rifiuto delle casualità domina sovrano), la conferma mette in circolo dopamina, la dopamina ci avvolge con il suo tepore neurochimico: ecco la bellezza. Naturalmente Ramachandran non dimentica o sottovaluta l’importanza del ruolo delle singole culture nella creazione e nella fruizione dell’arte: il fatto che si ricerchino fattori universali, da ricollegare a basi neurali, non sminuisce l’immensa ricchezza culturale rappresentata dai diversi stili, a loro volta determinati dalle diversità. Inoltre, la storia dell’arte o della musica non coincide affatto per Ramachandran con il trionfo delle valchirie verso un modello di bellezza assoluta, anzi: spesso si tratta di un gioco di attacco e difesa, costruzione e decostruzione, di conservazione e avanguardia teso esclusivamente a produrre diversità estetica e differenziazione percettiva, non certo bellezza.
Per comprendere come procede l’analisi di Ramachandran mi soffermo specificamente solo sul secondo elemento, il
peak shift (letteralmente, “spostamento del picco”), sintagma con cui il neuroscienziato indiano si riferisce a un processo di amplificazione/ridimensionamento dei tratti distintivi: l’operazione cognitiva che identifica qualcosa come bello richiede sia da parte dell’artista sia da quella del destinatario il riconoscimento implicito delle caratteristiche salienti di una forma rappresentabile e la realizzazione esplicita di un’esasperazione o viceversa di un ridimensionamento di esse. È questo che piace molto al cervello, e non solamente a quello umano, come dimostrano molti casi esemplari di osservazione visiva in cui si ricorre al peak shift e un noto test che assume come primo aspetto suscettibile di peak shifting quello della forma, in particolare dove la rettangolarità è la caratteristica di riferimento di un oggetto osservato. È stato osservato un comportamento molto particolare nei topi, che si è verificato anche in altre specie animali: a un topo sono stati presentati due elementi visivi, uno quadrato e uno rettangolare; ogni volta che si dirigeva verso il primo, non succedeva niente, mentre veniva premiato con del cibo quando si dirigeva verso il secondo. Dopo una dozzina di prove, il topo ha appreso che scegliere il rettangolo portava al cibo. E fin qui, niente di nuovo: è lo stesso meccanismo del famoso cane di Pavlov. Ciò che rende estremamente interessante questa prova è la fase successiva: al topo sono stati presentati lo stesso oggetto rettangolare e un altro oggetto diverso, non più quadrato ma ancora più rettangolare (più esteso e dai contorni meglio marcati). Ci si sarebbe potuto aspettare che il topo continuasse a dirigersi verso l’oggetto che aveva imparato potergli procurare il formaggio, e invece il topo è andato verso il secondo, poichè ha riconosciuto la proprietà saliente del primo oggetto e l’ha rivista però amplificata nel secondo oggetto, ciò che ha provocato un interesse finalistico ancora maggiore: una volta appreso che “rettangolare” vuol dir “ottengo cibo”, più è marcata la rettangolarità, meglio sarà. Insomma, il peak shift ha reso “bello” il triangolo più marcato.
Estetizzare la realtà. Da parte sua, il premio Nobel per la biologia Nikolaas Tinbergen ha condotto degli esperimenti sin dagli anni Cinquanta sui gabbiani reali, una specie diffusa sulle coste inglesi e americane che si distingue dalle altre per la presenza, sul lungo becco giallo della femmina, di una piccola macchia circolare rossa. Di fronte ai comportamenti dei pulcini affamati che beccavano vigorosamente il puntino rosso del becco materno, Tinbergen si chiese come potessero riconoscerla in mezzo a tante altre. Una prova successiva ha fornito una risposta interessante: non la riconoscevano affatto, o meglio, i pulcini di gabbiano reale per richiedere il cibo fanno affidamento al riconoscimento di un oggetto allungato con una macchia rossa: presentare loro un finto becco inanimato con questa caratteristica li porta ad avere lo stesso comportamento di richiesta messo in atto con la madre. Peraltro il meccanismo visivo del gabbiano non è certamente sofisticatissimo e molti altri fattori porterebbero il pulcino a confondersi, ma la sua visione si è evoluta nei millenni seguendo un principio di risparmio energetico ai fini della sopravvivenza, per cui gli basta un piccolo dettaglio per riconoscere un elemento nell’ambiente. Ebbene, ciò che appare ancor più interessante è un ulteriore fattore, che accomuna il caso del gabbiano di Tinbergen agli esperimenti sui topi appena citati. Manipolando le condizioni e proponendo al pulcino un finto becco con tre strisce rosse all’estremità, si è notato che esso lo cerca ancora più intensamente, becchettandolo più forte. Il secondo rettangolo era stato percepito dal topo come un “superrettangolo” e il secondo becco, dal piccolo di gabbiano, come un “superbecco”: tutto questo è avvenuto di fronte alla proposta di un oggetto noto, dalla proprietà estetica amplificata.
Naturalmente il genere caricaturale è una forma evidente di esasperazione in termini di peak shift, ma non è il solo modo di estetizzare la realtà. Ramachandran fa l’esempio di una statua della dea indiana Parvati: il fatto che i due seni e i fianchi siano così prorompenti potrebbe fare di lei una sorta di sexy pinup, mentre al contrario l’operazione che presiede al peak shift della dea Parvati è molto raffinata e si compone di due diverse riconfigurazioni rispetto alla realtà consueta: la prima riguarda l’applicazione dell’iperbole alle proporzioni anatomiche; la seconda, l’amplificazione delle possibilità posturali. Proprio attraverso queste due operazioni, Parvati è in grado di incarnare in una forma bella il concetto di femminilità. Essa vi riesce sia tramite un’iperbolica maggiorazione di tratti tipici della donna (fianchi e mammelle), sia tramite un’altrettanto iperbolica costrizione volumetrica di attributi più sviluppati nell’uomo (l’addome è ad esempio ridottissimo). Mentre l’artista scultore aggiunge elementi femminili e riduce gli elementi potenzialmente maschili, si dedica anche al peak shift posturale: molte statue la rappresentano in posizioni di torsione assolutamente innaturali e pressoché impossibili da assumere. Anche qui, ecco la bellezza vista dal punto di vista del cervello che guarda.
Il peak shift è dunque un “ultrastimolo”? La bellezza coincide con la salienza percettiva? Ramachandran sostiene che alcune correnti pittoriche hanno messo in atto princìpi di peak shift, ad esempio il cubismo, che è riuscito a mettere in atto lo stesso meccanismo innescato dalle tre strisce rosse nella percezione dei piccoli gabbiani. Picasso o Henry Moore nei rispettivi ambiti pittorico e scultoreo sono riusciti a legare profondamente il loro operato ai “principi figurativi” della nostra grammatica neuropercettiva: l’arte astratta è infatti composta di ultrastimoli, che eccitano con particolare intensità i neuroni delle aree visive rispetto alle immagini realistiche.
Stefano Calabrese. Professore Ordinario di semiotica del testo presso l’Università di Modena e Reggio Emilia, insegna inoltre semiotica presso lo UlM di Milano e letteratura per l’Infanzia presso la libera Università di Bolzano. tra le sue recenti pubblicazioni, Anatomia del best seller (Laterza, Roma-Bari 2015) e Retorica e Neuroscienze cognitive (Carocci, Roma 2014).
Processo Creativo e Processo Narrativo
In Scienza e Poesia
di Marco Pivato
Parole Chiave. poesia, scienza, metafore, astrazione.
Abstract. Tra le operazioni più frequenti, comuni a scienza e poesia, vi sono gli studi e le riflessioni sugli stati d’animo umani narrati, per esempio, sia dalle neuroscienze che dalla letteratura. Entrambe, grazie alla nostra facoltà astrattiva, utilizzano immagini, metafore e allegorie per spiegare l’uomo e il mondo e per diffondere conoscenza.
“L’atteggiamento scientifico e quello poetico coincidono: entrambi sono atteggiamenti insieme di ricerca e di progettazione, di scoperta e di invenzione.”
I. Calvino, La sfida al labirinto (1962)
Scienza e poesia. Il desiderio di conoscenza e le capacità di esplorare e decifrare il funzionamento della natura sono in dote all’Homo Sapiens, specie particolarmente “privilegiata”, in questo senso. Si può tuttavia percepire il desiderio di conoscenza come un fardello, frustrante dòmino di domande senza fine. Oppure accogliere la necessità che proprio la scienza regge le sue certezze sul dubbio: il suo percorso è un anelito, una volontà di conoscenza che si alimenta delle proprie mancanze, dunque un processo creativo e ottimista. Vero è che l’uomo sconta un profondo desiderio di essere nutrito di sapere, per via di quel senso di vacanza – scriveva Mario Luzi – nei confronti di un universo dato ma non spiegato e allora sempre da ricostruire.
Il sentimento che non esime l’uomo dall’interpretare continuamente l’ignoto è ambivalente: è fatto di inquietudine e allo stesso tempo di meraviglia. E proprio dalla paura e dalla meraviglia nascono le domande della scienza, ma anche quelle di un’altra millenaria attività contemplativa umana per eccellenza: la poesia. Entrambe, pur per strade diverse, tracciano visioni del mondo invocando – direttamente o indirettamente – risposte. Tra le operazioni più frequenti, co- muni a scienza e poesia, vi sono gli studi e le riflessioni sugli stati d’animo – dall’euforia alla profonda malinconia – narrati, per esempio, dalle neuroscienze con gli equilibri biochimici tra neurotrasmettitori e dalla letteratura con i vividi episodi degli autori romantici, decadenti e anche crepuscolari. Anche nella proposta della poesia italiana del Novecento si ritrova una coerente e inesausta riflessione sulla natura e sull’Io, una tensione che attraversa l’opera di Giorgio Caproni, Giuseppe Ungaretti, Andrea Zanzotto e molti altri, instancabili nel mettere in scena il dramma della ricerca di un rapporto armonico tra sé e il mondo. Proprio attorno agli affetti è – tra le tante testimonianze – emblematico il Carme 51 del poeta latino Catullo, capace di formulare una piccola fenomenologia della passione, quasi scientifica: chissà in quanti hanno provato una sintomatologia dell’innamoramento proprio come ce la descrive lui, con le orecchie rintronate e gli occhi annebbiati.
[…] mentre dolcemente gli sorridi; a me infelice
questo toglie completamente i sensi; per- ché non appena
ti vedo, o Lesbia, non mi resta più un filo di voce,
la lingua s’inceppa, sottile per le membra serpeggia una fiamma, rimbombano le orecchie
per un suono interno, su entrambi gli oc- chi
cala la notte […].
Sappiamo quanto vasto e complesso sia il quadro dell’affettività. Ma non siamo riduzionisti nello spiegare che nella dimensione biologica dei legami di coppia hanno ruolo assolutamente centrale, tra le altre, molecole come dopamina e ossitocina, sia durante lo svolgimento sia durante l’evoluzione degli affetti stessi. Quella tempesta emozionale automatica involontaria che descrivono i poeti come Catullo, oppure Virgilio (“Se l’amore tutto vince, conviene per noi cedere all’amore”), oggi la potremmo spiegare con il concetto di «sequestro neurale».
Immagini, metafore e astrazione. Scienza e poesia spiegano incessantemente il racconto della natura e dell’uomo che vive al suo interno e in questo atto è comune il ricorso alle immagini, possibile grazie alla nostra facoltà di astrarre. Una capacità tanto utile all’uomo primitivo per raffigurare i fenomeni naturali variopinti sulle pareti delle caverne di Lascaux, quanto a Charles Darwin per esemplificare la teoria dell’evoluzione (con un albero genealogico) o ai fisici contemporanei per rendere conto del significato del bosone di Higgs, ovverosia la “particella di Dio”, senza la quale non si spiegherebbe in che modo la materia abbia massa. Spesso proprio grazie all’uso di una metafora, aridità o concretezza della fisica delle particelle, come della scienza in generale, diventano panoramiche.
Spiegava, del resto, Margherita Hack: “ci piace scrutare le stelle dalla Terra e descriverle come un tappeto di margherite di un immenso prato celeste: meglio immaginarle così che non per quello che sono, cioè enormi masse di gas puzzolenti”. La metafora diviene strumento ancora più necessario oggi, negli anni in cui la scienza non parla più di pesi e carrucole ma di concetti più complessi come “onde gravitazionali”, “materia oscura”, “radiazione fossile” o “eco del Big Bang”.
È ancora più facilmente intuibile quanto sia importante il ricorso a immagini, metafore e allegorie nella creazione poetica: “una lonza leggiera e presta molto”, “un leone […] con la test’alta e con rabbiosa fame” ed “una lupa, che di tutte brame sembiava carca ne la sua magrezza” sono immagini della superbia e della violenza (leone), dell’avarizia e della cupidigia (lupa), dell’avidità e della lussuria (lonza) che, nel racconto dantesco, sono incarnate da tre fiere che hanno in ostaggio la libertà spirituale dell’uomo.
L’immagine, strumento dell’estetica, è dunque (anche) strumento di scienza e poesia. Per entrambe l’immagine – o ancora meglio la metafora – ha il potere di ridurre la complessità dei concetti trasformandoli in analoghi più maneggevoli. La metafora, in altre parole, è dotata di un’immensa capacità antientropica: con essa l’uomo è in grado di ricostruire un mondo eccessivo e sovraccarico di stimoli e perturbazioni per derivarne uno a propria misura, conferendogli un ordine e un senso.
Il processo narrativo di scienza e poesia ha inoltre un fine: se non quello di corteggiare la verità, quello almeno di produrre cambiamenti nella realtà. La scienza lo fa, come ben sappiamo, attraverso l’innovazione tecnologica, resa possibile dalla condivisione e dalla comunicazione dei nuovi studi. La poesia lo fa attraverso i suoi messaggi. Oggi la poesia non ha più questo potere forse, ma in potenza lo ha da sempre. Basta rammentare gli antichi poemi didascalici. Lucrezio, nel De rerum natura, spiegava la fisica secondo Epicuro in versi; Esiodo ne Le opere e i giorni insegnava a interpretare la posizione delle stelle per navigare, oltre a riconoscere, seguendo sempre gli astri, il momento per la semina e la raccolta. Questi e molti altri poemi, ovviamente, avevano non solo uno scopo didattico, ma anche quello di impartire insegnamenti morali e politici.
Se in antichità al poeta, al filosofo, al sacerdote o allo sciamano era conferita l’autorizzazione a educare la società oggi questa autorizzazione è conferita dalla società a opinion leader di altro genere. Tuttavia nel processo narrativo dell’alfabetizzazione mediante meme o messaggio lo strumento è rimasto la parola: sia per quanto concerne la filiera dell’innovazione tecnologica, che è il risultato della condivisione e della discussione e poi dell’applicazione dei risultati della ricerca di base, sia per quanto riguarda la retorica dei leader e dei mass media. La parola è quindi quella “tecnologia biologica” in dote all’Homo Sapiens che ha fatto di scienziati e poeti gli ingegneri della cultura.
Marco Pivato (Rimini 1980) è giornalista e scrittore. Dopo gli studi classici si è laureato presso l’Università di bologna in chimica e Tecnologia Farmaceutiche ed è farmacista. ha conseguito il Master in comunicazione della scienza presso la scuola Italiana superiore di studi avanzati di trieste, sterzando la professione verso il giornalismo scientifico, prima presso il Quotidiano Nazionale, poi come freelance per quotidiani e riviste di settore. Con l’Università di bologna collabora per progetti del dipartimento di scienze per la Qualità della vita. Collabora con La Stampa per il supplemento Tuttoscienze&Salute.
Narrazione e Autismo
Uso Terapeutico delle Storie con il Bambino Autistico:
un Esercizio Possibile delle Competenze Cognitive e delle Abilità Socio-Relazionali
di Maria Francesca Luziatelli
Parole Chiave. Narrazione, terapia, autismo, storie, storygrammar, comprensione cognitiva, condivisione del significato.
Abstract. I bambini autistici hanno la tendenza a concentrarsi sui dettagli di una storia narrata, senza riuscire a coglierne il significato generale. L’uso della narrazione stimola e sviluppa la capacità di comprensione e interpretazione cognitiva degli eventi: per questo ci chiediamo se l’atto del narrare, declinato nelle sue diverse forme – orale, scritta e visiva – possa fungere da sostegno per lo sviluppo di queste competenze cognitive nei bambini con autismo. Ipotizziamo inoltre che i benefici di tale approccio tera- peutico coinvolgano anche la sfera relazionale, visto che la comprensione di una storia narrata (evento accaduto) veicola la condivisione del suo significato a livello comunicativo.
Potenziale terapeutico della narrazione. L’incontro tra teorie della narrazione e neuroscienze cognitive svela il potenziale terapeutico dell’atto del narrare: applicare infatti gli studi narratologici in ambito medico consente di tentare veri e propri approcci terapeutici rispetto a molteplici patologie.
Sono già in corso ad esempio percorsi di sostegno terapeutico per i malati di Alzheimer, i quali beneficiano dello storytelling nel senso del rallentamento della degenerazione neuronale e del mantenimento di un contatto con la realtà autobiografica. Possiamo ipotizzare inoltre che la narrazione abbia una funzione terapeutica nel processo di accettazione del trauma interiore subìto, poiché riordinare le sequenze narrative di una storia equivale a mettere ordine tra memoria narrativa (il ricordo costruito per difendersi dal trauma) e memoria traumatica (il ricordo respinto di ciò che è realmente accaduto).
Non solo: nel Regno Unito esistono collaborazioni riconosciute dal Governo britannico e dal sistema sanitario nazionale tra agenzie di lettura e centri di supporto per malati di cancro, realizzate per offrire sostegno emotivo e psicologico ai pazienti sotto cura, per mezzo di romanzi e raccolte di poesie. Inoltre recenti studi di scienze cognitive hanno iniziato a esplorare il difficile terreno della comprensione delle storie da parte delle persone con autismo.
A fronte di queste sperimentazioni, alcune già avviate, altre in fase di definizione teorica, possiamo guardare al componimento narrativo – e parliamo indifferentemente di un romanzo o di un racconto breve – come a un’opera letteraria che diventa strumento terapeutico. In conseguenza le persone con difficoltà, traumi o vere e proprie patologie diventano i destinatari dell’opera creativa nel senso della sua fruizione terapeutica: i benefici riguardano il significato lenitivo e curativo della narrazione, rispetto agli stati emotivi e ai processi cognitivi interrotti o ritardati a causa di fattori di disturbo esterno, di motivi genetici e/o fisiologici.
Autismo e narrazione. L’autismo appare dunque una sindrome del tutto impermeabile alla comprensione di una storia narrata, poiché questo richiede competenze e abilità di tipo cognitivo, percettivo ed emotivo che sembrano di difficile – se non impossibile – raggiungimento per le persone autistiche.
Eppure proprio ai bambini autistici vogliamo provare a raccontare storie per tentare di sfruttare il potenziale terapeutico della narrazione, sia in senso cognitivo che emotivo e relazionale.
Gli studiosi di psicologia sperimentale Simon Baron Cohen e Jennifer Barnes – conosciuti per le loro ricerche sull’autismo – si sono recentemente concentrati sugli elementi principali di una storia che le persone autistiche, o con sindrome di Asperger, riescono a cogliere: l’ambientazione, il personaggio, il conflitto e la risoluzione. L’analisi ha mostrato che tendono a fornire dettagli locali piuttosto che dati riferiti al senso globale, per quello che riguarda ognuno dei quattro elementi.
L’abilità di comprendere storie è collegata all’abilità di capire il mondo sociale e quella di raccontare storie alla comunicazione pragmatica. Per questa ragione la ricerca si sta focalizzando sulle abilità di storytelling nelle persone con difficoltà di comunicazione, come quelle autistiche, caratterizzate da comportamento ripetitivo, difficoltà di interazione sociale e di comunicazione.
Una storia – e in particolare una storia di finzione – non è semplicemente una catena causale di eventi; al contrario una narrazione ha una struttura coesa, sviluppata intorno a elementi standard. Quando le persone parlano di storie, libri o film non incentrano il dibattito sulle cornici causali, discutono invece di elementi come la caratterizzazione dei personaggi o il plot.
Il termine story grammar si riferisce all’uso di specifici elementi usati per raccontare una storia e include i personaggi, l’ambientazione, il problema centrale o il conflitto, i tentativi dei personaggi di superare l’ostacolo, le conseguenze, le reazioni dei personaggi e la risoluzione finale. Negli studi sullo sviluppo delle capacità narrative dei bambini, questi elementi sono spesso ridotti a tre componenti chiave: l’inclusione di un obiettivo iniziale o di un problema, i tentativi di raggiungere l’obiettivo, l’esito finale della storia.
Nonostante le difficoltà con la comunicazione, le persone con sindrome autistica spesso riescono con successo a strutturare le loro narrazioni intorno ad alcune componenti chiave dello story grammar: ad esempio, malgrado la tendenza a trattare i personaggi come oggetti, un bambino con autismo spesso include elementi di una trama basica nel racconto di un semplice puppet show. Gli studiosi Norbury e Bishop hanno usato un picture book senza didascalie né dialoghi per osservare un esercizio di storytelling in bambini con e senza HFA (High Fun- ctioning Autism) e non hanno trovato differenze tra i due gruppi, nel rilevare gli elementi principali dello story grammar.
In che modo dunque le persone autistiche raccontano le storie? Delle componenti narrative dello story grammar – ambientazione, personaggio, conflitto e risoluzione – l’elemento su cui le persone con sviluppo tipico e quelle con sindrome ASC (Autism Spectrum Conditions) differiscono solo lievemente è il conflitto. In vari modi questo è un dato inaspettato poiché il conflitto è l’unico aspetto che richieda di attribuire stati mentali ai personaggi in una scena specifica. Una possibile spiegazione a questo risultato è che le storie usate per condurre l’esperienza di ricerca, come molte altre narrazioni convenzionali, sono incentrate proprio sul conflitto: gran parte dei dialoghi è dedicata a spiegare il conflitto e le storie terminano quando il conflitto si risolve.
Allo stesso tempo, le analisi di Barnes e Baron-Cohen hanno rivelato differenze significative tra il gruppo ASC e quello con sviluppo tipico riguardo la descrizione dell’ambientazione della storia, dei suoi personaggi e delle loro relazioni, infine del modo in cui la storia finisce.
Ci chiediamo così se l’atto del narrare possa essere speri- mentato come esercizio cogni- tivo che aiuti i bambini autisti- ci a sviluppare narrativamente “scene” complesse e ricche di dettagli, per creare un senso globale e condivisibile della storia.
Rispettando la difficoltà di cogliere e restituire la visione del tutto, possiamo pensare di stimolare in loro la narrazione di singole microscene in cui sia ripetuto un dettaglio narrativo che riguardi l’elemento del conflitto (poiché questo funziona da attrattore cognitivo): l’ipotesi è che, “giocando” su materiale narrativo così strutturato e chiedendo di rinarrarlo, la narrazione si svilupperà a partire dai dettagli verso la composizione di una visione d’insieme della storia.
L’attività del narrare, concentrata sul dettaglio ripetuto, potrebbe sviluppare così nel narratore autistico la capacità di seguire una traccia che porti induttivamente alla costruzione della storia, restituita in un modo sempre più prossimo a quello totalmente compiuto. Gli ultimi studi sull’autismo rivelano infine che gli autistici si avvalgono di un procedimento di pensiero di tipo visivo, anziché pensare per linguaggio come accade alle persone con sviluppo tipico: questo apre la possibilità di analizzare, studiare e definire un modo per testare la funzione delle narrazioni visive nello sviluppo cognitivo del bambino con autismo: e questa è un’altra importante storia da raccontare.
Maria Francesca Luziatelli. Si è laureata in Editoria e scrittura presso l’Università sapienza di Roma, con tesi di laurea in sociologia dei processi culturali e comunicativi. Ha lavorato come web editor presso riviste online sul tema dell’università e della ricerca, e come addetta alla comunicazione per un’agenzia di comunicazione del Ministero dello Sviluppo Economico; è stata analista d’informazione e comunicazione politica presso un laboratorio d’indagine sulla comunicazione audiovisiva. svolge il dottorato in Narratologia, presso la scuola di dottorato in scienze Umanistiche dell’Università di Modena e Reggio Emilia, con un percorso di ricerca sulla narrativa terapeutica.
I Pensieri del Tè
Un’Intuizione Letteraria descrive il “Momento Perfetto”:
un Insieme di Elementi che si Combinano in Totale Armonia
di Adriano Amati
Parole Chiave. Bellezza, letteratura, Muriel barbery, L’eleganza del riccio, filosofia.
Abstract. La neuroestetica oggi ha stabilito una più stretta relazione fra arte e cervello, cioè si cerca di esaminare le aree del cervello che si attivano quando si ammira un quadro, una statua… Un’apertura concettuale inedita da questo punto di vista ci viene suggerita dalla narrativa. L’articolo cerca di aprire uno spiraglio d’indagine sulla bellezza con un libro interessante e raffinato scritto nel 2006 da Muriel Barbery, docente di filosofia francese: L’eleganza del riccio.
Definizione di bellezza. Al fine di trovare un ampliamento del concetto di bellezza, possibile sulla base di nuove intuizioni che scaturiscono da ambiti del sapere non ancora del tutto indagati, è necessario operare un superamento delle acquisizioni filosofiche classiche che si sono consolidate nel corso della storia.
Nell’ambito della letteratura saggistica alcune definizioni vengono date per acquisite. La bellezza come insieme delle qualità percepite tramite i cinque sensi, qualità il cui scopo è suscitare piacere o comunque un contenuto emozionale positivo, ed anche quale scaturigine di una riflessione benevola sul significato della propria esistenza dentro il mondo naturale. Così pure si è cristallizzata la distinzione tra bellezza oggettiva, definita come insieme delle qualità rispondenti a dei canoni – funzione del tempo – e bellezza soggettiva, dipendente dal proprio gusto estetico – funzione della formazione -; infatti, attraverso l’analisi storica, è ampiamente condivisa l’idea che non si tratti di un assoluto immutabile bensì cangiabile, non solo relativamente alla bellezza fisica ma anche alla bellezza di Dio o semplicemente come idea.
Le tappe dell’elaborazione filosofica passano da Aristotele e Platone, per i quali la bellezza era il vero, da Giambattista Vico, che legava il vero al fatto e da questi due criteri ricava la forma occidentale della bellezza, l’arte; quindi Plotino introduce il concetto di visione interiore, per cui l’artista attinge ad una forma ideale del bello che risponde appunto ad un sentire intimo, e Kant analizza il bello secondo quattro criteri – disinteresse, universalità, finalità senza scopo (fine a se stessa) e necessità, ovvero percezione istintiva – e distingue la bellezza in natura e la bellezza nell’opera d’arte. Individua cioè alcuni criteri obiettivi per valutare un’opera d’arte, come l’armonia nella composizione, il rispetto del canone, la corrispondenza al vero, la prospettiva, il rispetto delle proporzioni, eccetera.
Il superamento di tale impostazione avviene in epoca moderna, quando alcuni di questi canoni vengono del tutto ignorati e ci si indirizza verso criteri innovativi cui la bellezza deve rispondere: accettazione della critica, asimmetria controllata, astrattismo, iperrealismo, impressionismo, provocazione, simbolismo, stilizzazione, surrealismo… ovvero si abbattono di fatto tutti i canoni predefiniti e si accetta la proposta dell’artista cercando l’attribuzione del bello a posteriori.
L’epoca recente ha affidato la ricerca sulla bellezza alla neuroestetica, un’area di ricerca che coinvolge le scienze cognitive e l’estetica e affianca l’approccio neuroscientifico alla consueta analisi estetica della produzione e della fruizione di opere d’arte; questo ha stabilito una più stretta relazione fra arte e cervello, cioè si cerca di esaminare le aree del cervello che si attivano nell’ammirazione di un quadro, una statua, eccetera.
L’eleganza del riccio. Un’apertura concettuale inedita ci viene suggerita dalla narrativa. E non bisogna consultare migliaia di pagine e squadernare centinai di libri, perché una delle virtù della letteratura è saper racchiudere in un solo romanzo un universo completo costruito sulla base di una cosmogonia autoriale che giustifica la verità di quanto vi si afferma. Diceva Miguel de Unamuno che la singolarità ha una dimensione universale, e bisogna leggere il suo Come si fa un romanzo per accettare questa piccola grande verità.
Così eccoci di fronte a una proposta in- solita: cerchiamo di aprire uno spiraglio d’indagine sulla bellezza con un libro interessante e raffinato scritto nel 2006 da Muriel Barbery, una docente di filosofia francese, in cui troviamo pagine di fortunate intuizioni: L’eleganza del riccio.
Renée Michel, la protagonista, sembra essere la comunissima portinaia del numero 7 di rue Grenelle, un condominio parigino abitato da famiglie facoltose; è apparentemente sciatta, pigra, perennemente presa dalla cura del suo gatto, dalla televisione e dalle sue piccole faccende private. In realtà Renée è una persona coltissima: si interessa di arte, di filosofia, di cinema, di musica classica e di cultura giapponese ma preferisce dissimulare la propria erudizione.
Ecco il suo esordio: “Quando sono angosciata, mi ritiro nel mio rifugio. Non c’è nessun bisogno di viaggiare; mi basta raggiungere le sfere della mia memoria letteraria e il gioco è fatto. Quale distrazione più nobile, quale compagnia più amena, quale trance più deliziosa di quella letteraria. O no?”
Sue sono alcune affermazioni che accarezzano il nostro tema con sguardo lieve e garbato. “Il bello è ciò che cogliamo mentre sta passando. È l’effimera configurazione delle cose nel momento in cui ne vedi insieme la bellezza e la morte… Forse essere vivi è proprio questo andare alla ricerca degli istanti che muoiono… Stasera, ripensandoci, con il cuore e lo stomaco in subbuglio, mi dico che forse in fondo la vita è così: molta disperazione ma anche qualche istante di bellezza dove il tempo non è più lo stesso. È come se le note musicali creassero una specie di parentesi temporale, una sospensione, un altrove in questo luogo, un sempre nel mai. Sì, è proprio così, un sempre nel mai”.
Le sue riflessioni ci avvicinano al nucleo dell’indagine: “Dove si trova la bellezza? Nelle grandi cose che, come le altre, sono destinate a morire, oppure nelle piccole che, senza nessuna pretesa, sanno incastonare nell’attimo una gemma d’infinito?… Ma è così estenuante desiderare incessantemente… Ben presto aspiriamo a un piacere senza ricerca, sogniamo una condizione felice che non abbia inizio né fine e in cui la bellezza non sia più finalità né progetto, ma divenga la certezza stessa della nostra natura. Ebbene, questa condizione è l’arte”.
Tutte queste affermazioni sembrano preparare la pagina in cui l’Autrice racconta il suo ideale di bellezza: Renée riceve la visita dell’unica amica che ha e insieme trascorrono un’oretta bevendo il tè e chiacchierando. È il momento perfetto, tutti gli elementi di quella circostanza all’apparenza così banale concorrono a una completa appagante armonia. La sua migliore amica (“fatevi una sola amica, ma sceglietela con cura”) le fa visita, e questa consolidata abitudine la rassicura, le conferma la sua posizione nel mondo. Nell’occasione la portineria resta chiusa, e questo la isola dall’ipocrita vita di condominio, la stanzetta dell’incontro diventa davvero un’isola felice in cui covare una quieta intimità. Le chiacchiere amene scambiate a cuor leggero e senza dissimulazioni dispongono l’animo alla bonomia degli affetti che sono puro nutrimento dello spirito; e poi il piacere del tè, ove le amiche intingono i biscotti, svolgendo un rito fatto di lentezza, serenità e pause in cui ascoltano il silenzio delle cose o si scambiano brevi frasi nel tono sommesso della complicità.
Insomma, qui la bellezza non ha storia né filosofia alle spalle, non cerca riscontri cerebrali o motivazioni fisiologiche, perché è un breve tratto di presente che abbraccia una serie di elementi perfettamente combinati tra loro (psicologici, ambientali, affettivi, relazionali, spirituali, gustativi); questo per Renée è il momento perfetto, lontano dalla vita rutilante dei borghesi che abitano il palazzo, senza contatti umani viziati dalla differenza di classe e dalle maschere che s’indossano quotidianamente, con la persona con la quale ha una piena corrispondenza d’affetto amicale, in una pausa d’intimità in cui i pochi gesti bastano a dare il senso d’una raffinata ospitalità; e tutto questo con profonda pace dello spirito.
È questa la bellezza, ancora più preziosa della letteratura, perché combina elementi diversi che solo occasionalmente si rendono disponibili. “Le cose belle dovrebbero appartenere alle belle persone”, dice Renée all’amica, l’unica con la quale lo scambio avviene attraverso un “cablaggio neuronale” di spontanea immediatezza, cospicuo, veloce, senza malintesi. La visita pomeridiana è la parentesi temporale in cui la protagonista si riconcilia con la propria esistenza, allora il suo animo si dispone all’accoglienza ed è foriero di emozioni e sentimenti squisiti. Dunque la bellezza sgorga da una circostanza, quando le condizioni soggettive e oggettive in un definito arco temporale concorrono a determinare la qualità di ciò che è sentito come bello dai sensi e dall’anima.
Per chi legge il romanzo infine la bellezza risiede anche nell’eleganza del riccio, cioè nel tratteggio intelligente con cui Barbery ci fa conoscere la protagonista: e pagina dopo pagina capiamo che Renée di fuori è protetta da aculei, chiusa come una vera fortezza, ma dentro è semplice e raffinata come i ricci, animaletti indolenti e solitari terribilmente eleganti.
Il romanzo trasuda bellezza, non solo perché ne parla ma perché la rappresenta magistralmente nella finzione narrativa, la sola che permette slanci iperbolici svincolati da qualsivoglia presupposto scientifico; esso di certo occhieggia in certe affermazioni e descrizioni, ma non è condizione necessaria per disegnare la forma ideale di un concetto che non deve solo spiegare il bello ma, appunto, prendere vita nella scrittura. Anche con piccole cose che non hanno alcuna pretesa ma sanno incastonare nell’attimo una gemma d’infinito.
Adriano Amati. Scrittore. Oltre a libri di turismo ed arte ha pubblicato: Turista a Tebaide (1991) e Bertrand il matematico (1994) per paolini Editore; Dialoghi del namoro (1997) per severgnini Editore; Domicilio Mantova (2003) per l’Editoriale La Cronaca; Detto tra noi (2005) per Prospecta Editore; I miei (2006) per il Cartiglio Mantovano; Una voglia di Sur (2008) e L’iride azzurra (2010) per Lui Editore; Ballate (2013) per Clessidra Editrice; Nebbia a teatro (2014) per Paolini Editore. Partecipa attivamente alle iniziative editoriali di clessidra Editrice.
Libri
Noverar Le Stelle
Che cosa hanno in comune scienziati e poeti
Scienziati e poeti fanno lo stesso mestiere, secondo l’autore di questo libro; entrambi tracciano visioni del mondo, gli uni attraverso teorie e formule, gli altri attraverso immagini e metafore. Le “due culture” si nutrono l’una dell’altra; e a portare alla luce una medesima comunanza di sentire sono gli stessi protagonisti di queste discipline, spesso sollecitati direttamente dall’autore del volume: linguisti, letterati, fisici, genetisti e premi Nobel ci raccontano la loro esperienza e ci fanno capire quanto contigue siano le loro strade, e quanto spesso si incrocino, nel comune viaggio verso la conoscenza.
Autore: Marco Pivato Prezzo: 17,00€
2015, Editore Donzelli
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